Interruzioni (durante la visione della “Lucina”), di Antonio Coda
…guardavo e appuntavo, interrompevo e appuntavo, sono andato avanti interrompendo e appuntando. Vigliaccamente, interrompendo lo scorrimento come uno spettatore di cinema non può fare, non potrebbe fare, come prima del digitale non era permesso. Si poteva solo o tenere gli occhi aperti o chiuderli, o stare o andare, o resistere o perdere. Si era solo ostaggi…
…però il film dal ritmo solo apparentemente dilatato è stato per me troppo repentino, i suoi fatti sono tutte le sue immagini, la sua storia è la storia di ogni inquadratura fatta proprio così, di ogni piano sequenza fatto proprio così, e allora quando proprio sentivo di doverlo fare lo interrompevo, prendevo fiato in un appunto, in un’impressione, nell’appiglio di una parola per non essere ingoiato del tutto dall’immagine, per non essere ingollato come viene ingollata l’acqua nel film, per tre volte, e ogni volta era come l’acqua non finisse mai, come si stesse ingollando il Lete intero…
) L’incipit, 3 minuti e 30 di fuoco, in pasto al fuoco, un impasto di fuoco, eppoi quella luna, come un doppio fondo di luna scintillante. E se invece di Moresco ora apparisse McCarthy?
) Colore e fotografia, saturi, lancinanti, a scolpire le scene, i luoghi. Quei luoghi che non potevano essere così, prima che la luce non gli fosse puntata contro così.
) 16 e 16. L’occhio scoppiato della volpe. Lo scoppio della visione.
) Tutta questa povera e dettagliata solitudine, tutta questa crostosa e scrutata desolazione. Tutta questa natura menefreghista, puntuta, tutto questo silenzio affannante, crepitante, e quel sasso a 27 e 55 come un pane crepato, un pane diventato pietra, che non può sfamare.
) Il quadro di 37 e 9, l’alba e un lenzuolo tirato sull’erbetta umidiccia, grigiolina.
) a 43: il terremoto, anche qui il terremoto, le crepe lungo i muri (e quando sente il terremoto non urla, non scappa, si copre il volto con la flanellina bianca della coperta, un sudario pronto a lasciarsi traghettare).
) Il bimbo con le pupille più nere del corvo morto tra i sassi bianchi – ma non è un corvo, i titoli di coda mi dicono che è una taccola – e dalle larghe orecchie kafkiane. Figlio di Kafka. Kafka bambino.
) Sta per succedere qualcosa, è già successo, sta per accadere, accadrà, accadrà per sempre, continuerà ad accadere per sempre.
) 55 e 38, i cerchietti colorati all’angolo del tavolo di legno bruno – verde, giallo, blu, rosso; e la boccettina di inchiostro nero, e sulla mensola di pietra, tra le pareti di un bianco ricoperto di lividi, il volume dell’acqua nella bottiglia di vetro, il bicchiere di vetro capovolto. Morandi? No, non Morandi. Nella casa del bambino morto le cose resistono a stento nelle loro forme. La luce è una luce di calce viva, vuole cancellare tutto. Il film è di fuoco notturno, di acqua oltre la luce.
) Qual è la geometria del film? Ho come l’impressione che tutto avvenga lungo linee tirate, angoli, curve e controcurve, segmenti segati e intersecati, tutto in un perimetro che non si può varcare, oltrepassare, come su una scacchiera, come se i movimenti fossero dettati da regole così soprannaturali da essere diventate naturalissime. E non perché si sentano indicazioni di regia, le pastoie della regia, è più un riprendere delle forze invisibili rese visibili e le forze invisibili non sono più sregolate di quelle visibili, è l’esatto contrario, le forze invisibili si restringono, si restringono sempre più, le forze invisibili sono la traccia che sta svanendo, che sta resistendo ma che deve svanire, sono una lucina testarda e terminale, liminale,sono al lumicino. (Ho dovuto correggere due volte lo stesso refuso, invece di forze avevo appuntato le ‘forse’, le “forse invisibili”).
) “Chi preghi?” / “Nessuno.” E chi altri?
) Questi panorami screpolati, scabri, come pelli d’animali essiccate, quando non soltanto dai giganteschi baratri verdi.
) Un horror dolcissimo. Una storia violentissima come un inno.
) Quanto buio, quanta luce. Quanta luce, quanto buio.
) Un film delicato e truce come un dolore inestinguibile, inestinguibile come un fuoco che non può riscaldare mai niente.
Tutte le immagini sono tratte da La lucina (2018) di Fabio Badolato e Jonny Costantino.
L’immagine della locandina è di Nicola Samorì.