Fascinazioni

Mario Benedetti

 

CAPITOLO VIII

I

Riguardo al mio morire è stato per me un difendersi, un difendersi strenuamente. Non più. Ma non faccio fatica. Come dentro un’epidemia, vivo nel casuale. Ma non Medioevo né peste, non Seicento né peste, almeno non quello di scrittori e pittori, terrifico, per esempio quello dei pittori secenteschi lombardi, i cosiddetti «pittori della peste», presenti tra le volte affrescate dei chiostri di Sant’Eustorgio, qui a Milano. Non so. L’istinto di sopravvivenza è molto mediato dalla società in cui io sono un io, dalle mie nuove abitudini con me stesso, dalle mie vittorie e dalle mie sconfitte.

II

La sconfitta più grande è il non essere tutto. Riunisce le altre.
La società e la cultura hanno sconnesso la gerarchia delle facoltà mentali.
La mia vittoria la forza, il tempo, non comuni. Attraverso la scrittura.
Mi sono portato verso il morire, costantemente, subendolo, interrogandolo. Ma c’è un passo. Da compiere in questi ultimi paragrafi.

[…]

 

MAGGIO 2009
(intervista con Claudia Crocco)

[…]

Sembra che tu senta molto l’incertezza delle cose, che per questo devono essere ricordate, quasi incise in qualche modo. È come se per viverle realmente ci fosse bisogno di ripensarle e rimodularle, come accade spesso in Umana Gloria.

Si, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura. Mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniare piccole parti.

In Umana Gloria si riesce a leggere ancora una dimensione diacronica, una presenza della storia. Nelle Pitture nere, invece, la dimensione temporale sembra del tutto assente, nonostante l’articolazione in capitoli dia una forma di architettura e di ordine consequenziale. Il tempo sembra sottratto alla poesia, e alle sue parole. Una mia ipotesi è che ciò avvenga perché l’obiettivo è quello di esprimere una condizione umana eterna. Il dolore e la morte, che tu cogli per barlumi, ci sono sempre, per tutti.

Alcune esperienze sono nel tempo, ma sono vissute come se fossero senza tempo: ad esempio l’innamoramento o il dolore per una grave perdita. Il fatto che siano nel tempo ne relativizza l’importanza, nonostante siano cose molto forti. Per cui io cerco di testimoniare, di dare un senso a quello che facciamo e che siamo; così che il senso che c’è, per esempio in questo momento fra noi due, non si vanifichi. Ma non sono sicuro di poterlo fare, né che lo si possa fare, cioè che abbia un senso di una certa portata. Io mi sento in bilico – credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo sempre fratture, scrivo per fratture. Mi sembra che non ci sia la possibilità di dire: «È vero così, è giusto così». Io penso che ogni mia poesia non chiuda niente. 

[…]

 


M. Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa 2010. Prefazione di Antonella Anedda.

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