Esperienze

L’ombra di Amleto, di Giuseppe Zuccarino

 

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Nell’ottobre 1843, il ventiduenne Charles Baudelaire si trasferisce in un appartamento all’interno di un palazzo storico parigino del XVII secolo, l’hôtel Pimodan, ex hôtel de Lauzun, che si trova nell’Île Saint-Louis, una piccola isola naturale nella Senna[1]. Vi rimarrà per due anni, fino al settembre 1845, un tempo lungo per lui, che più tardi si dichiarerà affetto dalla «grande Malattia dell’orrore del Domicilio»[2] e che in effetti cambierà di continuo abitazione, tanto per bisogno psicologico di mutamento quanto nella speranza di far perdere le proprie tracce ai creditori. L’appartamento in questione era modesto, essendo situato al terzo piano del palazzo e composto solo da tre vani. La stanza principale, che fungeva nel contempo da studio e camera da letto, era – secondo i ricordi trasmessi da un amico del poeta, Charles Asselineau – «uniformemente tappezzata, sulle pareti e sul soffitto, di carta rossa e nera […]. Tra l’alcova e il camino, rivedo ancora il ritratto dipinto da Émile Deroy nel 1843, e sul muro opposto, sopra un divano sempre ingombro di libri, la copia (in formato ridotto) delle Femmes d’Alger, opera dello stesso pittore, eseguita per Baudelaire e mostrata con orgoglio da quest’ultimo»[3]. La copia delle Femmes d’Alger dans leur appartement di Eugène Delacroix[4] non era l’unico segno della predilezione del giovane Baudelaire per questo artista. Egli infatti esibiva anche, appesi alle pareti del suo appartamento, un piccolo dipinto di Delacroix (una testa che rappresentava simbolicamente il Dolore) e l’intera serie delle litografie concepite come illustrazioni dell’Amleto di Shakespeare[5].

In effetti il pittore ammirava le opere di Shakespeare in generale, e più in particolare il dramma incentrato sul principe di Danimarca. Vari suoi lavori offrono conferma di ciò: «Il primo quadro, Hamlet et le spectre de son père […] è datato 1825, l’ultimo, Hamlet et Horatio au cimetière […], fu esposto al Salon del 1859. Tra queste due date, quadri, disegni, incisioni, attestano la fascinazione esercitata sull’artista dal personaggio, più ancora che dall’opera teatrale»[6]. Visto che Baudelaire l’aveva sotto gli occhi ogni giorno, merita particolare attenzione la serie di incisioni Hamlet. Treize sujets dessinés par Eugène Delacroix[7]. Di essa, che comprendeva in realtà sedici pezzi, tre dei quali esclusi dal libro, sono stranamente sopravvissute tutte le pietre litografiche originali, oggi conservate al museo Delacroix di Parigi[8]. L’artista non si era preoccupato di distribuire equamente le immagini in base ai cinque atti della tragedia, ma aveva scelto di illustrare solo i momenti di maggiore intensità emotiva: «Delacroix, incuriosito dal carattere enigmatico ed equivoco di Amleto, in cui violenza e sensibilità esagerata sono intimamente commiste, si è innanzitutto dedicato a tradurre le diverse espressioni dell’eroe posto di fronte a situazioni precise. Ce lo mostra di volta in volta cupo, violento, arrogante, sprezzante, indeciso e sconvolto dal dubbio»[9].

Le incisioni, realizzate fra il 1834 e il 1843, erano apparse ad alcuni critici dell’epoca come un po’ maldestre e insufficientemente rifinite, ma non avevano prodotto la stessa impressione in Baudelaire, come dimostra un passo del suo primo scritto sull’arte, il Salon de 1845. Qui, dopo aver dichiarato senza mezzi termini che «Delacroix è senz’altro il pittore più originale dei tempi antichi e moderni», ammette che «Daumier disegna forse meglio di Delacroix, se si vogliono preferire le qualità sane del vigore alle facoltà strane e sorprendenti di un grande genio», e subito dopo parla dell’«incantevole indecisione dei disegni su Amleto»[10]. Ancora ad essi allude l’anno successivo, quando trova che una delle figure afflitte, nella Pietà di Delacroix, sia accostabile ai «personaggi più desolati dell’Hamlet»[11].

Baudelaire individua altresì la qualità più notevole dell’artista, quella «che fa di lui il vero pittore del XIX secolo: una malinconia singolare e ostinata che esala da tutte le sue opere, e che si manifesta nella scelta dei soggetti, nell’espressione delle figure, nel gesto, e nello stile del colore. Delacroix predilige Dante e Shakespeare, due altri grandi pittori del dolore umano; li conosce a fondo, e sa tradurli liberamente. Contemplando la serie dei suoi quadri, sembra di assistere alla celebrazione di qualche mistero doloroso: Dante et Virgile, Le Massacre de Scio, il Sardanapale, il Christ aux Oliviers, il Saint Sébastien, la Médée, Les Naufragés, e l’Hamlet, che tanto è stato deriso e così poco compreso»[12]. Dunque la malinconia viene vista come un dato caratteristico dell’epoca, ma anche come il tratto che accomuna fra loro l’atrabiliare principe danese e i suoi ammiratori Delacroix e Baudelaire. È ben noto, del resto, il ruolo eminente che lo spleen svolge in vari componimenti poetici di Les Fleurs du Mal[13].

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A distanza di anni, Baudelaire torna a elogiare i quadri shakespeariani di Delacroix, e in particolare due di essi: Les adieux de Roméo et Juliette e Hamlet et Horatio au cimetière[14]. Si chiede in quale maniera si possano definire opere così suggestive, «così profondamente penetranti e attraenti che l’occhio che abbia immerso lo sguardo nei loro microcosmi malinconici non può più sottrarvisi, e la mente non può più evitarli»[15]. Riguardo al quadro che raffigura Amleto in dialogo col becchino, osserva: «Non è l’Hamlet che ci ha fatto vedere Rouvière, ancora recentemente e con tanto splendore; acre, infelice e violento, con un’inquietudine spinta fino alla turbolenza. È proprio la bizzarria romantica del grande attore tragico; ma Delacroix, forse più fedele, ci ha mostrato un Hamlet delicato e palliduccio, dalle mani bianche e femminee, una natura squisita ma molle, leggermente indecisa, con un occhio quasi atono»[16].

Il riferimento è all’attore Philibert Rouvière, celebre interprete del personaggio di Amleto, nell’adattamento che dell’opera shakespeariana avevano realizzato Alexandre Dumas e Paul Meurice. Il suo esordio nel ruolo risaliva al 1846, ma appunto nel 1855 egli lo aveva ripreso al Théâtre de l’Odéon di Parigi. Baudelaire ammirava molto questo attore (che conosceva anche di persona), al punto da scrivere due articoli su di lui, il secondo dei quali è un necrologio[17]. Agli occhi del poeta, tra le sue interpretazioni in opere teatrali di vari autori, restava memorabile proprio quella di Amleto, «grande successo di Rouvière. – Ma recitato come un Amleto meridionale; Amleto furibondo, nervoso e petulante»[18]. Ricordiamo per inciso che anche un grande pittore, Édouard Manet, ha reso omaggio a Rouvière, raffigurandolo col costume di Amleto nel dipinto L’acteur tragique[19].

Nel suo saggio su Les Misérables, Baudelaire cita un passo di Victor Hugo su Shakespeare: «Ammirevole onnipotenza del poeta! Egli fa cose più elevate di noi, che vivono come noi. Amleto, per esempio, è vero quanto ognuno di noi e più grande. Amleto è colossale, e tuttavia reale. Questo perché non è né voi né me, ma è tutti noi. Amleto non è un uomo, è l’Uomo. Sprigionare eternamente il grande attraverso il vero, il vero attraverso il grande, tale è dunque, secondo l’autore di quel dramma, lo scopo del poeta a teatro. In poche parole, grande e vero racchiudono tutto. La verità contiene in sé la moralità, il grande contiene in sé il bello»[20]. Benché l’articolo di Baudelaire sia nel complesso elogiativo, è facile immaginare l’irritazione che doveva suscitare in lui un passo come quello riportato, col suo tronfio elogio della grandezza e l’associazione fra arte e moralità. È ben noto, infatti, che nell’ottica baudelairiana quest’ultimo nesso è insostenibile, giacché sarebbe erroneo e pericoloso voler attribuire all’arte in genere, e in particolare alla poesia, un intento di tipo morale: «Dico che se il poeta ha perseguito uno scopo morale, ha diminuito la propria forza poetica, e non è imprudente scommettere che la sua opera sarà cattiva. La poesia non può, pena la morte o l’indebolimento, assimilarsi alla scienza o alla morale; ha per oggetto Se Stessa, non la Verità»[21]. Perciò l’autentico parere di Baudelaire sul romanzo di Hugo è quello espresso in una lettera alla madre: «Quel libro è immondo e insulso. A tal proposito, ho mostrato che possedevo l’arte di mentire. Lui [Hugo] ha scritto, per ringraziarmi, una lettera assolutamente ridicola. Ciò prova che un grand’uomo può essere uno sciocco»[22].

Queste posizioni verranno ribadite in uno scritto successivo. Si tratta di una lettera spedita anonimamente da Baudelaire al giornale «Le Figaro», che la pubblica nell’aprile 1864. Il poeta è venuto a sapere che gli amici di Hugo hanno preso l’iniziativa di organizzare a Parigi un banchetto per celebrare l’anniversario della nascita di Shakespeare. Baudelaire sospetta che l’effettivo intento degli organizzatori sia del tutto diverso e, approfittando della copertura costituita dall’anonimato, cita anche se stesso fra coloro che non sono stati invitati al banchetto: «Charles Baudelaire, il cui gusto per la letteratura sassone è ben noto, era stato dimenticato. Eugène Delacroix è ben felice di essere morto. Senza alcun dubbio, gli sarebbero state chiuse in faccia le porte del festino, proprio a lui, traduttore alla sua maniera di Hamlet»[23]. Tra le vere finalità dei promotori dell’iniziativa, ossia della «piccola cricca di caudatari di quel poeta (nel quale Dio, per un’impenetrabile spirito di mistificazione, ha amalgamato la sciocchezza con il genio)», Baudelaire cita alla rinfusa le seguenti: «Preparare e incentivare il successo del libro di V. Hugo su Shakespeare […]. Fare un brindisi alla Danimarca […], cosa dovuta ad Amleto, che è il più noto principe di Danimarca. […] Fare dei brindisi a Jean Valjean, all’abolizione della pena di morte, all’abolizione della miseria, alla Fraternità universale, alla diffusione dei Lumi […], infine a tutte le stupidaggini tipiche di questo XIX secolo nel quale abbiamo la stancante fortuna di vivere»[24]. Come si vede, Baudelaire teme che, in questa occasione, anche il povero Amleto possa finire con l’essere reclutato fra gli antesignani di quel progressismo umanitario di cui da tempo Hugo (al pari dei suoi seguaci) si è fatto strenuo difensore.

3

Che in Amleto Baudelaire veda qualcosa di più di un personaggio letterario fra altri, è dimostrato da una poesia delle Fleurs du Mal, La Béatrice. In questo testo, il poeta immagina di vagare in un terreno spoglio, in preda a pensieri tormentosi, quando gli appare in cielo, entro una nuvola scura, una schiera di demoni viziosi che lo scrutano con l’aria di trovarlo buffo e bizzarro. Poi, tra risate e strizzatine d’occhi, essi commentano: «Guardiamola bene questa caricatura, / ombra d’Amleto che ne imita la postura, / con lo sguardo indeciso e i capelli al vento. / Non fa forse pena vedere questo buontempone, / pezzente, istrione senza ingaggio, birbante, / che pretende, solo perché interpreta bene la parte, / d’imporre la canzone dei suoi dolori / alle aquile e ai grilli, ai ruscelli ed ai fiori, / e di recitare urlando le sue pubbliche tirate / persino a noi, che di tali astuzie siamo gli inventori?»[25]. Il poeta sarebbe stato disposto a sopportare la beffa crudele, se non avesse scorto nella nuvola qualcosa di ancor più increscioso: «La regina del mio cuore dallo sguardo senza pari, / ridere con i demoni della mia cupa angoscia / e fare loro a volte qualche sozza carezza»[26]. In una tale visione, in tutto degna dei Caprichos di Goya, colpisce l’amara ironia che il poeta rivolge sia contro di sé che contro la Beatrice, ossia la donna ideale, la quale però si rivela affine ai demoni piuttosto che a lui. Il richiamo esplicito al principe di Danimarca non ha nulla di casuale, perché di fatto Baudelaire aveva un temperamento assai simile a quello del personaggio shakespeariano: incline al sarcasmo, alla singolarità spinta fino alla provocazione, al disprezzo verso l’ipocrisia e l’ottusità altrui.

Ma le analogie non si fermano qui, perché investono anche le rispettive biografie, l’una immaginaria e l’altra effettiva. Léon Daudet ha scritto: «Mi sono chiesto se Baudelaire […] non avesse cercato, per istrionismo e traslazione psichica, di ripetere l’avventura del principe di Danimarca»[27]. Walter Benjamin, dopo aver citato tale frase, la esplicita così: «Daudet solleva la questione se Baudelaire non abbia, in una certa misura, recitato l’Amleto di fronte ad Aupick e a sua madre»[28]. Richiamiamo in breve i fatti. Nel 1819 il padre del poeta, François Baudelaire, all’età di sessantadue anni sposa in seconde nozze la ventisettenne Caroline Dufaÿs. Due anni dopo nasce Charles, che però ha modo di vivere con entrambi i genitori solo per poco, perché nel 1827 François muore. A un anno e dieci mesi dal trapasso del marito, Caroline si risposa con un ufficiale, Jacques Aupick, destinato a una brillante carriera nell’esercito, che lo porterà a diventare generale. Dapprima i rapporti di Charles con il patrigno sono buoni, ma si guastano a partire dal 1839, anno in cui il giovane viene espulso per cattiva condotta dal collegio parigino Louis-le-Grand, e ancor più in seguito, quando diviene chiaro che egli non intende dedicarsi a una carriera regolare bensì diventare scrittore. Inoltre il fatto che il giovane conduca una vita sregolata e dispendiosa, contraendo ingenti debiti, fa sì che i rapporti tra lui e il patrigno siano ormai caratterizzati da una forte ostilità reciproca. Possiamo dunque notare una certa somiglianza con le vicende dell’Hamlet: così come il principe danese, anche Charles resta privo di padre, mentre la madre, senza attendere molto, si risposa con qualcuno che finisce coll’apparire al figlio come un intruso che gli ha sottratto, almeno in parte, l’affetto materno. Ciò, assieme ad altri motivi, suscita nel giovane un desiderio di vendetta, desiderio che resta peraltro inappagato.

Prima di tornare su questi dati biografici aggiungendo maggiori dettagli, conviene far presente che anche nella tragedia shakespeariana Amleto tarda a vendicare la morte del padre contro lo zio, Claudio, il quale non soltanto l’ha causata, ma ha poi sposato la regina vedova e usurpato il trono del re defunto. Di questo strano contegno del principe, improntato a incertezza e procrastinazione, i veri motivi restano misteriosi. Com’è noto, una celebre spiegazione dell’enigma è stata fornita dal fondatore della psicoanalisi, che ha ricondotto il comportamento di Amleto al complesso di Edipo. Tuttavia, mentre nell’Edipo re di Sofocle l’assassinio del padre e l’unione sessuale con la madre venivano compiuti di fatto (benché non intenzionalmente) dal protagonista della tragedia, nell’opera shakespeariana la situazione non è la stessa. Secondo Freud, in ciò «si rivela tutta la differenza nella vita psichica di due periodi di civiltà tanto distanti tra loro, il secolare progredire della rimozione nella vita affettiva dell’umanità»[29]. Ne consegue che in nessun punto del dramma Amleto dimostra una particolare attrazione nei riguardi della madre, e che la sua aggressività psicologica non è rivolta verso il padre, peraltro defunto, bensì verso lo zio traditore e omicida. L’esitazione di Amleto ad adempiere al compito di vendetta assegnatogli dallo spettro paterno non dipende, palesemente, da paura o viltà. Infatti «lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui [Polonio] che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani [Rosencrantz e Guildenstern] alla morte a lui stesso destinata»[30]. Cosa dunque gli impedisce di comportarsi allo stesso modo verso colui che dovrebbe essere l’effettivo bersaglio del suo odio? La risposta è semplice: «Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi. Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da autorimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano letteralmente che egli stesso non è migliore del peccatore che dovrebbe punire»[31].

A sviluppare le efficaci ma succinte indicazioni di Freud è stato uno psicoanalista suo seguace, Ernst Jones, nel libro Amleto e Edipo[32]. Dopo aver passato in rassegna l’immensa bibliografia critica relativa alla tragedia shakespeariana, elencando e valutando le diverse spiegazioni dell’indecisione di Amleto fornite da scrittori, psicologi e studiosi di letteratura, Jones formula la propria soluzione del problema: «E se davvero Amleto molti anni prima, da bambino, avesse sofferto intensamente nel dover dividere l’affetto della madre sia pur con il proprio padre, se l’avesse considerato un rivale e avesse desiderato che si togliesse di mezzo per potersi godere incontrastato e tranquillo il monopolio di quell’affetto? Beninteso, avrebbe rimosso pensieri del genere; la pietà filiale e l’educazione ne avrebbero cancellato ogni traccia. Il fatto però che questo desiderio infantile si realizzasse concretamente nella morte del padre per mano di un rivale geloso avrebbe allora riattivato questi ricordi rimossi. Si sarebbe allora risvegliato, in forma di depressione e di angoscia, un oscuro postumo del conflitto infantile»[33]. Certo, occorrerebbe accettare la premessa secondo cui è lecito e proficuo psicoanalizzare un personaggio letterario, dunque un essere immaginario, come se si trattasse di un paziente in carne e ossa – cosa a cui si potrebbero senz’altro rivolgere forti obiezioni –, ma nonostante ciò, anche a distanza di tempo, questa interpretazione della tragedia shakespeariana conserva un certo interesse.

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Considerando quel che precede, è facile comprendere che la tentazione di applicare lo stesso tipo di lettura psicoanalitica al caso di Baudelaire possa essere divenuta quasi irresistibile. Lo dimostra ad esempio Yves Bonnefoy, in un suo lungo saggio (nel quale, peraltro, i nomi di Freud e Jones non vengono citati)[34]. Bonnefoy ricorda che, quando la madre di Baudelaire era rimasta vedova e prima del nuovo matrimonio, il piccolo Charles aveva trascorso con lei dei momenti felici. In una lettera che le scriverà assai più tardi, il poeta parlerà infatti in maniera nostalgica di quel periodo: «C’è stata nella mia infanzia un’epoca di amore appassionato per te; […] è stato per me il buon tempo delle tenerezze materne […]. Ero sempre vivo in te, tu eri unicamente mia. Eri sia un idolo che un compagno. Sarai forse stupita che io possa parlare con passione di un tempo così lontano. Io stesso me ne stupisco»[35].

Quindi, nel momento in cui la madre convola a nuove nozze, dimostrandosi infedele sia alla memoria del primo marito, sia all’intenso rapporto affettivo instaurato col figlio, non sorprende che quest’ultimo si sia sentito tradito. Ciò induce Bonnefoy a chiamare in causa Amleto: «Pensate al giudizio che, nella tragedia di Shakespeare, esprime su sua madre Gertrude quell’Amleto che fu, in maniera così intensa, uno dei riferimenti maggiori di Les Fleurs du Mal. Anche Gertrude si era risposata prestissimo dopo la sua vedovanza, anche Gertrude si mostrava innamorata di quell’altro uomo in una maniera manifestamente carnale»[36]. Secondo Bonnefoy, questo cedimento della madre agli istinti sessuali ha indotto Baudelaire a perdere rispetto non soltanto verso di lei, ma anche verso le donne in generale. Lo dimostrerebbero i citati versi di La Béatrice, nei quali il poeta «incrimina pure, e come d’altronde fa Amleto in Shakespeare, una Ofelia. E che in Baudelaire sia in causa ugualmente una disillusione che verte su tutte le donne, è indicato dal fatto che questa nuova Ofelia viene da lui chiamata Beatrice, come, stavolta, in Dante: la figura più al riparo da sospetti, quella di cui un poeta aveva saputo d’istinto che poteva essere il proprio ideale, ecco che viene accusata al pari di un’altra»[37].

Ma torniamo per un attimo indietro, al periodo dei più stretti rapporti tra il piccolo Charles (ricordiamo che all’epoca ha solo sei anni) e la madre. Bonnefoy decide di accentuare la sua interpretazione in chiave edipica, e considera pertanto le «tenerezze materne» cui accenna il poeta come se con quest’espressione si alludesse a qualcosa di più: «Si tratta certo di un amore filiale, ma assai compenetrato di sensualità, di sessualità»[38]. È vero che, da adulto, lo smaliziato Baudelaire si mostrerà capace di avere significative intuizioni pre-freudiane riguardo all’infanzia: «Cosa ama così appassionatamente il bambino in sua madre, nella domestica, nella sorella maggiore? […] È anche la carezza e la voluttà sensuale. Per il bambino questa carezza si esprime all’insaputa della donna, attraverso tutte le grazie della donna. Dunque egli ama sua madre, sua sorella, la sua nutrice, per il piacevole solletico del raso e della pelliccia, per il profumo del seno e dei capelli, per il tintinnio dei gioielli, per il gioco dei nastri, ecc., per tutto quel mundus muliebris che comincia dalla camicia e si esprime persino nel mobilio in cui la donna mette l’impronta del proprio sesso»»[39]. Tuttavia ciò non autorizza certo a parlare, come fa Bonnefoy, dei rapporti tra Charles bambino e la madre come se si trattasse di una «relazione quasi incestuosa»[40]. E questa è solo una delle molte forzature e interpretazioni opinabili presenti nel suo saggio, che non possiamo esaminare nei particolari.

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Ciò non deve indurre però a considerare invalidata l’analogia che i primi psicoanalisti avevano colto tra le vicende biografiche di Baudelaire e la trama dell’Hamlet shakespeariano. Conviene piuttosto mostrare come tutto diventi più complesso e meno schematico quando dalla finzione letteraria si passa al piano del reale, specie nel caso di un poeta, Baudelaire, i cui rapporti con gli altri individui sono stati spesso improntati ad ambiguità e mutamenti di giudizio. Cominciamo proprio dal caso della madre, che notoriamente ha svolto un ruolo di primo piano nella sua esistenza, e non soltanto nel periodo infantile e adolescenziale. Pur tenendo conto del fatto che la retorica epistolare è cambiata enormemente da allora, restano significative frasi come quelle che si leggono in una lettera di Charles diciassettenne: «Penso a te, almeno tu sei un libro perpetuo: si chiacchiera con te, ti si ama, non si è mai sazi come invece con gli altri piaceri. In fondo, è forse una fortuna che siamo stati separati: […] ho imparato più che mai ad amare la mamma perché sentivo che era assente; lo vedrai al tuo ritorno: coperta di baci, di cure, di premure, anche se sai già che ti voglio bene, sarai comunque stupita da quanto ti amo»[41]. Tuttavia questo non significa che, una volta divenuto adulto, Baudelaire conservi intatti tali sentimenti per la madre, la quale, dal suo punto di vista, gli procura non poche delusioni. Infatti Caroline accetta che il figlio venga messo prima in collegio (a Lione e a Parigi), poi sotto tutela giudiziaria, non approva il fatto che lui voglia essere uno scrittore o che conviva con un’amante (Jeanne Duval), gli rimprovera molte volte l’incessante catena di debiti da lui contratti. Per tutti questi motivi, le relazioni epistolari e personali del poeta con la madre sono, non di rado, burrascose.

Quanto a François Baudelaire, si può dire che sia un po’ partecipe della natura dello spettro, in quanto il figlio ha avuto modo di conoscerlo solo nella prima infanzia. Anche nei suoi confronti l’atteggiamento di Baudelaire è ambivalente. Da un lato, egli conserverà per tutta la vita il ritratto che, del padre, era stato realizzato da un artista neoclassico, Jean-Baptiste Regnault, cosa che costituisce senza dubbio un segno di rispetto verso la figura paterna[42]. Dall’altro, secondo la testimonianza di un suo conoscente, riteneva dannoso l’essere stato generato, in maniera incauta, da un uomo già anziano. Ha infatti dichiarato a Georges Barral: «Io sono malato, necessariamente malato, possessore fin dalla nascita di un temperamento esecrabile, per via del fatto che i miei genitori erano male assortiti. Io mi sfilaccio (sic) a causa della loro disparità. Ecco cosa significa essere figlio di una madre di ventisette anni e di un padre di sessantadue! Unione sproporzionata: trentacinque anni di differenza! Mi hai detto che studiavi la fisiologia sperimentale con Claude Bernard: chiedi dunque al tuo maestro cosa pensa dei frutti casuali di un simile accoppiamento!»[43]. Inoltre, pur avendo ereditato da François l’amore per le arti visive, non era affatto entusiasta di ciò che il padre aveva realizzato nelle sue vesti di pittore dilettante. In una lettera alla madre, racconta di aver scoperto da un mercante di quadri un’opera di François («un nudo, una donna sdraiata che vede in sogno due figure nude»); lo avrebbe forse acquistato per ricordo, se avesse avuto denaro a sufficienza, tuttavia dichiara senza mezzi termini: «Mio padre era un artista detestabile»[44]. Nulla a che vedere, dunque, coll’opinione altamente positiva che, nella tragedia shakespeariana, Amleto ha (o ostenta di avere) riguardo al proprio padre.

Bonnefoy, per coerenza con la propria interpretazione in chiave psicoanalitica delle opere baudelairiane, avrebbe dovuto almeno tenere nel debito conto (cosa che non fa) l’atteggiamento del poeta verso il generale Aupick. Da bambino, Charles manifestava affetto verso il patrigno, ma poi, per i motivi che abbiamo già indicato, si sviluppa in lui una spiccata avversione. Oltre a quanto trapela dalle missive indirizzate alla madre, ci sono due episodi di cui occorre tener conto, perché consentono di stabilire un parallelo con l’attitudine di Amleto verso Claudio. Il primo aneddoto viene riferito da Maxime Du Camp, al quale è stato narrato dal poeta stesso: «Un giorno, il colonnello Aupick dava un ricevimento ufficiale; aveva riunito alla propria tavola magistrati, alti ufficiali e alcuni personaggi di rilievo. Baudelaire, che aveva allora diciassette anni, assisteva al pasto. Non so quale incidente sopravvenne. Baudelaire fece uno scherzo strambo, che senza dubbio il colonnello strapazzò in maniera vivace. Baudelaire ascoltò la sgridata; poi, alzatosi e piazzatosi vicino al patrigno, gli disse: “Lei cerca di umiliarmi davanti a persone della sua casta, che fingono di scambiare le sue panzane per battute umoristiche e che, per buona educazione, credono di dover ridere; dimentica che io porto un cognome che sua moglie ha avuto il torto di abbandonare e che ho il dovere di far rispettare. Lei mi ha offeso gravemente, e ciò merita una punizione. Signore, ecco che avrò l’onore di strangolarla”. Si gettò sul colonnello Aupick e lo afferrò per la gola; il colonnello si liberò e diede un paio di schiaffi a Baudelaire, che cadde in preda a uno spasmo nervoso. I domestici lo portarono via. Fu rinchiuso nella sua camera»[45].

Il secondo episodio è più noto. Baudelaire partecipa alla rivolta popolare parigina del febbraio 1848. Un altro manifestante, Jules Toubin, che conosce il poeta, lo incontra «in mezzo a una folla che aveva appena saccheggiato la bottega di un armaiolo», e descrive così il suo atteggiamento: «Portava un bel fucile a due colpi luccicante e vergine, e una superba cartucciera di cuoio giallo altrettanto immacolata. Io lo fermai, e venne verso di me simulando una grande animazione: “Ho appena sparato!”, mi disse. E siccome io sorridevo, guardando la sua artiglieria nuova di zecca – “Ma non per la Repubblica, ci mancherebbe altro!” – Non mi rispondeva, gridava molto, e il suo ritornello era sempre quello che bisognava andare a fucilare il generale Aupick»[46]. Più tardi, in Mon cœur mis à nu, il poeta ha spiegato, retrospettivamente, il proprio stato d’animo di allora: «La mia ebbrezza nel 1848. Di che natura era questa ebbrezza? Gusto della vendetta»[47].

Si trattava però solo di velleità rimaste senza seguito, diversamente dunque dal caso di Amleto che, sia pure dopo molte esitazioni e rinvii, finisce con l’uccidere Claudio. Da parte sua, invece, Baudelaire sapeva di doversi rassegnare a vivere in «un mondo in cui l’azione non è sorella del sogno»[48]. Ma per lui è stato meglio così, giacché nel caso di chi coltivi puerili e funeste idee di vendetta la rinuncia è senz’altro preferibile al passaggio all’atto. Del resto, come ha scritto Bonnefoy riferendosi all’Hamlet, «Shakespeare, assieme ad altri testimoni, ha mostrato che l’azione, perlopiù, non è altro che un sogno povero»[49].

 

NOTE:

[1] Una foto della facciata dell’edificio, scattata da Eugène Atget nel 1900, è riprodotta in Stéphane Guégan, Album Charles Baudelaire, Paris, Gallimard, 2024 (= Album), p. 56.

[2] C. Baudelaire, Mon cœur mis à nu (1862-65, edito postumo nel 1887), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 2024 (= Œ. C.), vol. II, p. 493 (tr. it. Il mio cuore messo a nudo, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, p. 1429; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).

[3] C. Asselineau, Charles Baudelaire. Sa vie et son œuvre, Paris, Lemerre, 1869; poi, con l’aggiunta di Baudelairiana (edito postumo nel 1906), Cognac, Le temps qu’il fait, 1990, pp. 31-32 (tr. it. Vita e opera di Charles Baudelaire, Genova, Il Canneto, 2016, p. 18). Il ritratto del poeta eseguito da Deroy (la data esatta è 1844) è riprodotto in Album, p. 60.

[4] Per questo e gli altri quadri che citeremo in seguito, cfr. L’opera pittorica completa di Delacroix, a cura di Luigina Rossi Bortolatto, Milano, Rizzoli, 1972.

[5] Cfr. Claude Pichois – Jean Ziegler, Charles Baudelaire, Paris, Fayard, 1996; nuova edizione riveduta, ivi, 2005 (= P. Z.), pp. 230-231.

[6] Arlette Sérullaz, Delacroix et Shakespeare, la suite lithographique d’«Hamlet», in A. Sérullaz – Yves Bonnefoy, Delacroix & Hamlet, Paris, Réunion des musées nationaux, 1993, p. 11. Esiste un dipinto del 1821 conosciuto con due titoli alternativi: Autoportrait en Hamlet o Autoportrait en Ravenswood: se si volesse privilegiare il primo, anziché quello che fa riferimento a un personaggio del romanzo The Bride of Lammermoor (1819) di Walter Scott, sarebbe lecito vedervi il segno di un’ideale identificazione del pittore con l’Amleto shakespeariano.

[7] Paris, Gihaut Frères, 1843.

[8] Riprodotte in Delacroix & Hamlet, cit., alle pp. 29-44.

[9] A. Sérullaz, op. cit., p. 11.

[10] Salon de 1845, in Œ. C., vol. I, pp. 77 e 80 (tr. it. Salon del 1845, in Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, pp. 4 e 7).

[11] Salon de 1846, in Œ. C., vol. I, p. 246 (tr. it. Salon del 1846, in Opere, cit., p. 1032).

[12] Ivi, p. 250 (tr. it. p. 1037). Quasi tutti i titoli vanno ritoccati o completati: Dante et Virgile aux Enfers, La mort de Sardanapale, Le Christ au jardin des Oliviers, Saint Sébastien secouru par les Saintes Femmes, Médée furieuse, Le naufrage de Don Juan, Hamlet et Horatio au cimetière.

[13] Cfr. in proposito i saggi di Jean Starobinski Les Proportions de l’immortalité. Baudelaire: «Spleen II» (1983), in La beauté du monde. La littérature et les arts, Paris, Gallimard, 2016, pp. 429-441 e La mélancolie au miroir. Trois lectures de Baudelaire, Paris, Juillard, 1989 (tr. it. La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, Milano, Garzanti, 1990).

[14] Ci sono quattro dipinti (del 1835, 1839, 1840 e 1859) che recano questo titolo; qui il poeta pensa al più famoso della serie, quello del 1839; cfr. L’opera pittorica completa di Delacroix, cit., tavola XXXIX.

[15] Exposition universelle [de 1855], in Œ. C., vol. I, p. 552 (tr. it. Esposizione universale – 1855 – Belle arti, in Opere, cit., p. 1179).

[16] Ibidem. Per la scena raffigurata da Delacroix, cfr. William Shakespeare, Amleto (1600-1601), atto V, scena I, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 215-223.

[17] Rouvière (1856), in Œ. C., vol. I, pp. 593-598, e Le Comédien Rouvière (1865), in Œ. C., vol. II, pp. 531-533.

[18] Le Comédien Rouvière, cit., p. 532.

[19] Il quadro, eseguito tra il 1865 e il 1866, è riprodotto ad esempio in Françoise Cachin, Manet, Paris, Éditions du Chêne, 1990 (tr. it. Manet, Milano, Fabbri, 1991, p. 63).

[20] Il passo di Hugo, tratto dalla prefazione alla sua opera teatrale Marie Tudor (Paris, Renduel, 1833), viene citato in «Les Misérables», par Victor Hugo (1862), in Œ. C., vol. II, p. 334 (tr. it. «I Miserabili» di Victor Hugo, in Saggi critici, Bologna, Pendragon, 2004, p. 72).

[21] Notes nouvelles sur Edgar Poe (1857), in Œ. C., vol. I, p. 635 (tr. it. Nuove note su Edgar Poe, in Opere, cit., p. 828).

[22] C. Baudelaire, lettera a Madame Aupick del 10 agosto 1862, in Correspondance, Paris, Gallimard, 1973, vol. II, p. 254 (tr. it. in Il vulcano malato. Lettere 1832-1866, Roma, Fazi, 2007, p. 300).

[23] Anniversaire de la naissance de Shakespeare (1864), in Œ. C., vol. II, p. 465.

[24] Ivi, p. 467. Jean Valjean è un noto personaggio dei Misérables (Bruxelles, Lacroix, Verboeckhoven et Cie, 1862), mentre il libro di Hugo a cui si allude è William Shakespeare, Paris, Librairie internationale, 1864.

[25] La Béatrice, in Les Fleurs du Mal (1861), in Œ. C., vol. II, pp. 109-110 (tr. it. La Beatrice, in I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, p. 293).

[26] Ivi, p. 110 (tr. it. p. 293).

[27] L. Daudet, Baudelaire, in Flambeaux, Paris, Grasset, 1929, p. 210.

[28] W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (1935-40), tr. it. Vicenza, Neri Pozza, 2012, p. 294.

[29] Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Opere, tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1989, vol. 3, p. 246.

[30] Ibidem. Cfr. Amleto, atto III, scena IV (pp. 157-159) e atto V, scena II (pp. 229-233).

[31] L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 246-247. Le stesse idee riguardo alla tragedia shakespeariana verranno ribadite da Freud anche in testi successivi, come ad esempio Autobiografia (1924) e Dostoevskij e il parricidio (1927), entrambi in Opere, cit., vol. 10, pp. 130-131 e 532-533.

[32] E. Jones, Amleto e Edipo (1949), tr. it. Milano, SE, 2018.

[33] Ivi, pp. 51-52.

[34] Y. Bonnefoy, Baudelaire et la tentation de l’oubli (2000), in Sous le signe de Baudelaire, Paris, Gallimard, 2011, pp. 137-183.

[35] Lettera a Madame Aupick del 6 maggio 1861, in Correspondance, cit., vol. II, p. 153 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., pp. 258-259). Il medesimo periodo dell’infanzia viene evocato, sia pure con molta discrezione, nella breve poesia Je n’ai pas oublié, voisine de la ville, in Les Fleurs du Mal, cit., p. 94 (tr. it. Non ho dimenticato, vicina alla città, in I fiori del male, cit., p. 255).

[36] Y. Bonnefoy, op. cit., p. 144.

[37] Ivi, p. 145. Cfr. Amleto, atto III, scena I (pp. 123-127).

[38] Y. Bonnefoy, op. cit., p. 156.

[39] Lettera ad Auguste Poulet-Malassis del 23 aprile 1860, in Correspondance, cit., vol. II, p. 30 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 236).

[40] Y. Bonnefoy, op. cit., p. 154.

[41] Lettera a Madame Aupick del 3 agosto 1838, in Correspondance, cit., vol. I, p. 61 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 27).

[42] Si veda il ritratto in Album, p. 20.

[43] G. Barral, Cinq journées avec Charles Baudelaire à Bruxelles (ricordi relativi al 1864, editi postumi), Liège, Éditions de «Vigie 30», 1932, cit. in P. Z., p. 92.

[44] Lettera a Madame Aupick del 30 dicembre 1857, in Correspondance, cit., vol. I, p. 439 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 164). Il quadro descritto è andato disperso, ma rimangono varie gouaches di François, una delle quali è riprodotta in Album, p. 27.

[45] M. Du Camp, Souvenirs littéraires, Paris, Hachette, 1882-83, cit. in P. Z., p. 175.

[46] Aneddoto raccolto da Eugène Crépet nel 1886, cit. in P. Z., p. 331.

[47] Mon cœur mis à nu, cit., p. 482 (tr. it. p. 1418).

[48] Le Reniement de saint Pierre, in Les Fleurs du Mal, cit., p. 114 (tr. it. Il rinnegamento di san Pietro, in I fiori del male, cit., p. 305).

[49] Y. Bonnefoy, Baudelaire contre Rubens (1969; nuova versione ampliata 1977), in Sous le signe de Baudelaire, cit., p. 72.

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