Roussel, produttore di congegni verbali, di Giuseppe Zuccarino
Il percorso, esistenziale e letterario, di Raymond Roussel è decisamente insolito. Egli nasce nel 1877, in un’agiata famiglia alto-borghese. Dopo studi liceali non completati, si iscrive al Conservatorio, divenendo un buon pianista. Nel 1897 pubblica un romanzo in versi, La Doublure, presso l’editore parigino Alphonse Lemerre, lo stesso cui affiderà tutte le sue opere successive. L’insuccesso del libro causa a Roussel i primi disturbi psichici, che in seguito richiederanno anni di cure. Inoltre, le sue frequentazioni omosessuali gli provocano dei ricatti, che cerca di rintuzzare sia con l’esborso di denaro che per vie legali. Nel 1904 pubblica un libriccino, La Vue, che riunisce tre testi poetici di carattere descrittivo. Qualche anno dopo la madre di Roussel, nella speranza di porre fine alle voci che circolano riguardo al comportamento del figlio, assume una giovane donna, Charlotte Dufrène, con l’incarico di fingersi l’amante di Raymond. Rispettivamente nel 1910 e nel 1914, vengono pubblicate le due opere maggiori, ossia i romanzi in prosa Impressions d’Afrique e Locus Solus. Da entrambi, l’autore ricaverà degli adattamenti teatrali, che a proprie spese farà rappresentare sulle scene, sperando di ottenere maggiore successo e visibilità.
In effetti, anche se la stranezza dei libri e degli spettacoli suscita perlopiù reazioni ironiche e polemiche, raccoglie anche il plauso di giovani scrittori e artisti d’avanguardia. Tra questi ve ne sono alcuni che diverranno in seguito esponenti di rilievo del surrealismo: André Breton, Michel Leiris, Robert Desnos, Roger Vitrac, Marcel Duchamp, Salvador Dalí. Il fatto può sembrare paradossale, visto che Roussel ammirava fino alla venerazione letterati ben più tradizionali come Jules Verne, Pierre Loti, Edmond Rostand, François Coppée, e dichiarava di non comprendere i libri dei suoi giovani ammiratori. Altre due opere rousselliane, scritte appositamente per il teatro e messe in scena, vengono edite negli anni successivi: si tratta di L’Étoile au front (1925) e La Poussière de Soleils (1927).
Lo scrittore compie viaggi attraverso i vari continenti, utilizzando talvolta a questo scopo una lussuosa roulotte che si è fatto costruire. Comincia però ad avere problemi di dipendenza dalle droghe, e pertanto deve seguire cure di disintossicazione. Inoltre il tenore di vita dispendioso da lui condotto sta prosciugando le sue ingenti risorse finanziarie. Nel 1932 pubblica un nuovo e originale testo poetico, Nouvelles impressions d’Afrique. L’anno successivo si reca con Charlotte Dufrène a Palermo, dove alloggia al Grand Hôtel et des Palmes. Lì, qualche giorno dopo aver tentato il suicidio tagliandosi le vene dei polsi, finisce col morire a causa di un’overdose di barbiturici, nel luglio 1933. Per sua volontà, verrà edito postumo il volume Comment j’ai écrit certains de mes livres (1935), nel quale, a sorpresa, egli svela i particolari metodi compositivi che ha adottato nel redigere le sue opere più rilevanti[1].
A partire da questo volume, e soprattutto del breve testo che gli dà il titolo, è divenuto possibile considerare diversamente le molte stranezze, di forma e di contenuto, che caratterizzano la produzione di Roussel. Egli esordisce dicendo: «Mi sono sempre proposto di spiegare in che modo avevo scritto alcuni dei miei libri (Impressions d’Afrique, Locus Solus, L’Étoile au Front e La Poussière de Soleils). […] Fin da quando ero giovanissimo, già scrivevo dei racconti di poche pagine impiegando questo procedimento. Sceglievo due parole quasi simili (sul tipo dei metagrammi). Per esempio billard [biliardo] e pillard [predone]. Poi vi aggiungevo parole simili ma prese in due sensi differenti, e ottenevo così due frasi quasi identiche […]: 1° Les lettres du blanc sur les bandes du vieux billard… 2° Les lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard. Nella prima, lettres era preso nel senso di “segni tipografici”, blanc nel senso di “gesso” e bandes nel senso di “sponde”. Nella seconda, lettres era preso nel senso di “missive”, blanc nel senso di “uomo bianco” e bandes nel senso di “orde guerriere”»[2]. Una volta stabilite le due frasi, simili per suono ma diverse per significato («le lettere tracciate col gesso sulle sponde del vecchio biliardo» e «le missive inviate dall’uomo bianco riguardo alle orde del vecchio predone»), si trattava di scrivere un racconto che potesse iniziare con la prima e terminare con la seconda, cosa che Roussel ha fatto nel testo Parmi les Noirs[3]. Data la brevità del racconto, l’applicazione del procedimento è ancora rudimentale, poiché il lettore può facilmente riconoscere la quasi identità grafico-fonica tra la frase iniziale e quella finale.
Tuttavia Parmi les Noirs offre qualche spunto tematico al successivo, e ben più importante, romanzo Impressions d’Afrique. Se si vuole esporre in breve la trama di questo libro – che a dispetto del titolo non è un diario di viaggio ma un’opera di pura fantasia – occorre attenersi alla fabula anziché all’intreccio, ossia seguire gli eventi nel loro ordine cronologico anziché nel modo in cui vengono presentati nel corso del testo. Infatti la costruzione del volume è alquanto anomala: i capitoli I-IX descrivono l’ultima fase della vicenda, di cui il lettore ignora gli antefatti, mentre i capitoli X-XXV espongono l’intera storia, fornendo, per ciascuna delle molte stranezze già incontrate nella prima parte, spiegazioni che risultano nel contempo dettagliate e macchinose. La storia è comunque la seguente. Il piroscafo Lyncée, partito da Marsiglia con destinazione Buenos Aires, naufraga presso le coste africane. I passeggeri sono incolumi, ma vengono catturati dai guerrieri del sovrano indigeno Talou VII. Tra i viaggiatori c’è un folto gruppo di personaggi d’eccezione (artisti, attori, giocolieri, musicisti, inventori). Rendendosi conto di ciò, Talou decide di tenerli in ostaggio fino a quando le loro famiglie, dall’Europa, invieranno la somma da lui richiesta per il riscatto. Poiché Talou si prepara a festeggiare la propria incoronazione a imperatore (avendo appena conquistato il territorio confinante col suo), i viaggiatori dotati di particolari abilità decidono di dedicare molto tempo all’organizzazione di uno spettacolo, il «Gala degli Incomparabili», durante il quale, il giorno dell’ascesa di Talou al trono imperiale, ciascuno di loro darà dimostrazione del proprio talento. Gran parte del romanzo descrive appunto lo spettacolo, dopo il quale, essendo nel frattempo pervenuta a Talou la quota del riscatto, agli «incomparabili» verrà finalmente concessa la possibilità di tornare in patria.
Come si vede, parrebbe essere in causa un romanzo d’avventure di ambientazione esotica, ma di fatto quella che troviamo nelle pagine del libro è una serie di episodi inconsueti, la cui bizzarria dipende sostanzialmente dalla tecnica compositiva adottata dall’autore. Egli infatti, partendo dalle due frasi-matrici di Parmi les Noirs, procede per associazioni di idee e di vocaboli, elaborando molti altri calembours, i quali a loro volta generano i diversi particolari che caratterizzano ogni episodio. In Comment j’ai écrit certains des mes livres, Roussel fornisce qualche esempio: «Queue [stecca] di biliardo mi fornì il vestito con lo strascico [altro significato della parola queue] di Talou. Una stecca da biliardo reca talvolta le cifre (le iniziali) del proprietario; da qui la cifra (numero) impressa sul suddetto strascico. Cercai una parola da aggiungere a bandes e pensai a delle vecchie fasce [bandes] in cui fossero state fatte delle reprises [dei rammendi]. E la parola reprises in senso musicale [ritornelli] mi fornì la Jéroukka, il poema che le bandes (orde guerriere) di Talou cantano, e la cui musica consiste nelle continue reprises [riprese] di un breve motivo»[4]. Tutto ciò pare astruso, ma se ci si riporta al testo delle Impressions d’Afrique diviene più chiaro e, per così dire, visibile (del resto, finirà realmente con l’offrirsi allo sguardo dello spettatore, quando l’adattamento del romanzo verrà rappresentato a teatro). Talou, per assumere un aspetto degno di nota nel giorno dell’incoronazione, si mostra «stranamente acconciato da cantante di caffè-concerto, con un abito azzurro scollato, terminante con un lungo strascico, sul quale spiccava in cifre nere il numero “472”»[5]. Occorrerà attendere più un centinaio di pagine per trovare la spiegazione di questi particolari: l’abito apparteneva a uno dei prigionieri, il cantante Carmichaël, che in passato aveva avuto successo a teatro esibendosi in vesti femminili e imitando alla perfezione una voce di soprano, e anche riguardo al numero che figura sullo strascico viene fornita una contorta motivazione[6]. Quanto alla Jéroukka, si tratta di un poema scritto dallo stesso Talou per celebrare le proprie vittorie militari, e destinato ad essere appreso a memoria e cantato, su una melodia ripetitiva, dai guerrieri[7].
Ed ecco ora una delle più celebri macchine ideate da Roussel per lo stesso romanzo, nata da tre coppie di parole, graficamente uguali o simili fra loro ma dotate di sensi diversi, unite dalla preposizione francese à. Tale metodo richiede, come dichiara l’autore stesso, un lungo lavoro di ricerca: «1) Baleine (mammifero marino) à îlot (da isoletta); 2) baleine (stecca di balena) à ilote [per ilota] (schiavo spartano). 1) duel [duello] (combattimento a due) à accolade [con abbraccio] (due avversari che si riconciliano dopo il duello […]); 2) duel [duale] (forma del verbo greco) à accolade [con parentesi graffa] (segno tipografico); 1) mou [molle] (individuo fiacco) à raille [da burla] […]; 2) mou [polmone di vitello] à rail (per binario ferroviario). Questi tre ultimi accoppiamenti di parole mi hanno dato la statua dell’ilota, fatta di stecche di balena da corsetto, che scorre su rotaie di polmone di vitello e reca sul piedistallo un’iscrizione relativa al duale di un verbo greco»[8]. In Impressions d’Afrique, è lo scultore Norbert Montalescot a realizzare, su ingiunzione di Talou, alcune statue destinate ad essere messe in movimento da una gazza ammaestrata. Una di esse dev’essere tanto leggera da poter scorrere, senza schiacciarlo, su un binario fatto di polmone di vitello. Come soggetto della scultura, Norbert sceglie la storia di un ilota a cui il padrone impone di imparare a memoria l’intera coniugazione del verbo greco εἰμί, duale compreso; quando l’ilota fallisce la prova, il suo crudele proprietario lo uccide, trafiggendolo con uno stiletto[9]. Il risultato del lavoro dell’artista è appunto un’opera che raffigura, a grandezza naturale, «un uomo colpito a morte da un’arma infittagli nel cuore. […] La statua era nera e al primo sguardo sembrava fatto di un solo blocco; ma a poco a poco l’occhio scopriva una grande quantità di scanalature tracciate in ogni senso e costituenti, perlopiù, molti gruppi paralleli. L’opera, in realtà, era composta soltanto da innumerevoli stecche di balena da corsetto […]. Il corpo muscoloso, le braccia contratte, le gambe nervose e semiflesse, tutto sembrava palpitare o soffrire, in virtù della curvatura fascinosa e perfetta conferita alle invariabili lamelle scure»[10]. Non mancano il piedistallo con le ruote e il binario morbido su cui esso effettivamente può scorrere, non appena la gazza aziona col becco un meccanismo celato nel basamento. Quest’ultimo reca impresse, unite da una parentesi graffa, due forme di quel duale che l’ilota aveva dimenticato, oblio fatale perché pagato con la vita.
Non è certo questa l’unica macchina descritta nel romanzo: ve ne sono infatti di ancor più mirabolanti. Troviamo così una specie di mola che, tramite complessi ingranaggi, aziona un braccio meccanico il quale, armato di fioretto, si dimostra capace di sconfiggere in duello anche lo schermidore più esperto. Oppure una cetra, disposta orizzontalmente, che viene fatta suonare (dall’alto e a distanza) da un lombrico melomane collocato su un apposito supporto; il verme, con abili movimenti, lascia cadere sulle singole corde gocce di un liquido pesantissimo, eseguendo in tal modo interi brani musicali, sia lenti che veloci. O ancora un telaio, azionato da un piccolo mulino ad acqua, che senza alcun intervento umano intesse un mantello raffigurante la scena del Diluvio universale con l’Arca di Noè. E potremmo continuare a lungo. Il lettore resta sorpreso di fronte a simili invenzioni narrative, ma sbaglierebbe se credesse «di riconoscere i vagabondaggi senza tracciato dell’immaginazione là dove non vi sono che i casi del linguaggio trattati metodicamente»[11].
Una forma evoluta del procedimento consente a Roussel di trovare il punto di partenza per i propri giochi linguistici in una frase qualsiasi, che viene poi scomposta in parole di suono simile. Egli cita ad esempio l’incipit di una canzoncina infantile, J’ai du bon tabac dans ma tabatière (Ho del buon tabacco nella mia tabacchiera), che gli fornisce la seguente sequenza di vocaboli: jade tube onde aubade en mat (objet mat) a basse tierce (giada tubo onda serenata in opaco (oggetto opaco) ha bassa terza)[12]. La serie può sembrare inutilizzabile a fini narrativi, ma non è tale per Roussel, che da essa ricava un’intera scena da Mille e una notte: «Sotto un cielo puro si stendeva un giardino splendido, pieno di fiori affascinanti. Al centro di una vasca di marmo, un getto d’acqua zampillante da un tubo di giada disegnava con grazia una curva slanciata»[13]. Alla finestra di un vicino palazzo c’è una coppia male assortita, composta da un ricco e grasso mercante e da una bella donna. Quest’ultima riserva tutti i propri sguardi a un grazioso giovane che, nel giardino sottostante, «volgendo verso la coppia il viso da poeta ispirato, cantava un’elegia di sua creazione, servendosi di un portavoce di metallo color argento opaco»[14].
I medesimi procedimenti linguistici vengono adottati nel romanzo successivo, Locus Solus, la cui trama risulta più lineare rispetto a quella di Impressions d’Afrique. Il libro narra come lo scienziato e inventore Martial Canterel inviti un gruppo di ospiti a visitare la propria villa, che comprende anche un vasto parco[15]. Nelle diverse zone che compongono quest’ultimo è possibile ammirare parecchi esempi delle scoperte e realizzazioni dovute all’ingegno del padrone di casa. Tra queste, c’è un’enorme vasca a forma di diamante, colma di un particolare liquido entro cui si muovono una danzatrice, un gatto senza pelo e ciò che rimane della testa del famoso rivoluzionario Danton. Altrove, si trovano otto grandi gabbie di vetro, che contengono, in ambienti appositamente ricostruiti, degli individui. In realtà non si tratta di persone vive, bensì di cadaveri, rianimati grazie all’azione di due nuovi sieri scoperti da Canterel (la résurrectine e il vitalium), e pertanto resi in grado di ripetere i gesti che hanno caratterizzato un momento saliente della loro esistenza. Terminata la visita del parco, gli ospiti vengono invitati a pranzo all’interno della villa.
Inutile dire che ogni particolare del romanzo è corredato dalle relative spiegazioni, che sono al tempo stesso «complesse, ingegnose e “tirate per i capelli”»[16]. Vediamo un unico specimen delle invenzioni descritte in Locus Solus: riguarda uno dei congegni che gli ospiti possono osservare nel giardino. Tutto nasce ancora una volta da una coppia di frasi quasi omofone: demoiselle à prétendant (signorina che ha un pretendente) e demoiselle à reître en dents (mazzeranga per raitro fatto di denti)[17]. Ricordiamo che la mazzeranga è un attrezzo di legno o di ferro usato per ripianare e assestare il selciato, mentre il raitro era, nel XVI secolo, un soldato tedesco di cavalleria. Dalla bizzarra frase ottenuta mediante la trasformazione, Roussel ricava una delle sue più formidabili trovate: «Leggera d’aspetto, benché interamente metallica, la mazzeranga era appesa a un piccolo aerostato color giallo chiaro, che nella sua parte inferiore, svasata circolarmente, faceva pensare alla sagoma di una mongolfiera. Sotto, il suolo era decorato in modo stranissimo. Su un’estensione piuttosto vasta, erano sparsi da ogni lato denti umani, che offrivano una grande varietà di forme e di colori. […] I denti, fittamente raggruppati, davano origine, con la sola alternanza delle loro tinte, a un vero e proprio quadro ancora incompiuto. L’insieme raffigurava un raitro addormentato in una cripta tenebrosa, mollemente riverso sul bordo di uno stagno sotterraneo»[18]. È appunto la mazzeranga, sollevata da terra dall’aerostato, ad essere in grado (tramite un complesso meccanismo) di selezionare e disporre a terra, nel punto più opportuno, ogni dente, quasi fosse la tessera di un mosaico, così da formare l’immagine relativa al raitro. Le varie colorazioni dei denti si spiegano col fatto che lo scienziato aveva precedentemente scoperto un sistema indolore per estrarre quelli guasti dalle mascelle dei pazienti, dunque si era procurato un’ampia riserva di incisivi, canini, premolari e molari, diversamente scuriti dalla carie. Avendo deciso di usarli per comporre un mosaico, Canterel sceglie di rappresentare, utilizzando la mazzeranga semovente, l’episodio relativo al raitro, storia che sostiene di aver desunto da un’antica saga (ma che ovviamente è frutto della fantasia di Roussel).
Probabilmente non occorre fornire ulteriori esempi di simili ideazioni su base linguistica, ma è importante aggiungere che anche i libri dell’autore da lui dichiarati estranei al procedimento, derivano dall’applicazione di originali regole costruttive. Un caso particolarmente illuminante è quello di Nouvelles Impressions d’Afrique. Si tratta di una composizione in versi che, pur non essendo molto lunga, è costata all’autore, per sua stessa ammissione, sette interi anni di lavoro. Il titolo dell’opera è fuorviante, poiché manca ogni sostanziale rapporto col precedente romanzo Impressions d’Afrique. Roussel aveva dapprima pensato di descrivere due immagini, visibili all’interno di «un minuscolo binocolo a tracolla, in cui ciascuno dei tubi, largo appena due millimetri e fatto per essere applicato contro l’occhio, racchiudeva una fotografia su vetro, uno quella dei bazar del Cairo, l’altro quella di un viale di Luxor»[19]. Ma poi il progetto è cambiato radicalmente, dando luogo a un poemetto in quattro canti. Ciascuno di essi inizia facendo riferimento a un luogo dell’Egitto, ma dopo pochi versi il discorso viene interrotto da un inciso fra parentesi di tutt’altro argomento, il quale a sua volta include un nuovo inciso parentetico divagante, e così via. Si arriva in tal modo fino a cinque gradi di parentesi inscatolate l’una nell’altra. Inoltre, come se non bastasse, in vari punti del testo compaiono dei richiami a cui sono collegate lunghe note a piè di pagina, redatte anch’esse in versi e rispettando l’uso delle rime che caratterizza l’intero componimento. È facile capire che la lettura di un’opera di questo genere risulta estremamente ardua, poiché le continue digressioni che interrompono le frasi sono basate sulla ricerca di analogie tra oggetti e circostanze alquanto diversi fra loro.
Un ulteriore elemento perturbante è dato dalla presenza di 59 illustrazioni; Roussel le ha commissionate all’illustratore Henri-Achille Zo, senza rendergli noto il proprio testo, ma limitandosi a indicargli i vari soggetti da trattare. Inutile dire che anche tali soggetti, almeno a prima vista, non presentano alcun rapporto reciproco. Vediamo ad esempio i primi punti dell’elenco fornito dallo scrittore: «1. San Luigi nella sua prigione di Damietta; 2. Una casa nel pieno di un incendio, circondata da pompieri che salgono su scale; 3. Un omino di neve, come quelli fatti dai bambini, dalla bocca largamente aperta, sembra scoppiare dal ridere; 4. Un uomo toglie un fiore secco dalle pagine di un libro; 5. Una strada deserta, con un lampione in primo piano»[20]. Non sorprende il fatto che il carattere molto insolito del testo e delle immagini abbia suscitato l’entusiasmo di alcuni surrealisti. Ha scritto ad esempio Salvador Dalí: «Fra tutti i libri della nostra epoca, ecco il più “poeticamente inafferrabile”, e di conseguenza il più dotato di avvenire. La metafora, sublimemente deprezzata, sfiora qui i bordi della “debilità mentale”. Le comparazioni stabilite procedono dalle più immediate e dirette somiglianze aneddotiche accidentali, grazie a cui gli elementi comparati, che si succedono a centinaia, ci fanno assistere ai conflitti più oscuri e impenetrabili che si siano mai prodotti. [….] È con l’utilizzazione sistematica, all’infinito, di questo meccanismo di associazioni microscopiche impossibili da contraddire – meccanismo destinato a “mettere in valore” il contenuto ossessivo e delirante che consegue dalla scelta degli elementi comparati – che le Nouvelles Impressions d’Afrique ci si presentano come l’itinerario sognato dei nuovi fenomeni paranoici. La scelta delle illustrazioni offre un’ulteriore testimonianza del genio di Raymond Roussel»[21].
Certo, Dalí sta portando acqua al proprio mulino, quello costituito dal cosiddetto «metodo paranoico-critico», ma nel contempo solleva un problema reale. Infatti, per quanto sia lecito considerare le tecniche costruttive di Roussel come una sorta di spettacolare gioco letterario, basato su una serie di contraintes autoimposte, non sarebbe forzato vedere in esse anche un sintomo dei problemi mentali dell’autore. Come osserva Maurice Blanchot, pensando in particolare ai due romanzi in prosa, si direbbe che «descrizioni, spiegazioni, racconti e commenti funzionino da soli, in modo piatto e meccanico, per meglio imbrigliare il vuoto o la mancanza […]. È allora inevitabile che si sia tentati di rapportare il carattere ossessivo di questo processo alla perversità di una qualche forma di follia»[22]. Al di là dell’aspetto inquietante delle creazioni letterarie di Roussel, come pure delle molte eccentricità di comportamento da lui manifestate nella vita quotidiana, resta da capire in cosa consistessero i suoi disturbi psichici. Essi, infatti, si sono rivelati talmente intensi e persistenti da costringerlo a ricorrere alle cure degli specialisti.
La terapia di più lunga durata è stata quella intrapresa dal noto psicologo Pierre Janet, il quale ha anche scritto riguardo al caso del suo paziente, ribattezzandolo per l’occasione Martial (dal nome del protagonista di Locus Solus). È stato lo stesso Roussel a voler includere, fra i materiali raccolti in Comment j’ai écrit certains de mes livres, alcune pagine tratte dallo studio di Janet De l’Angoisse à l’Extase[23]. In esse, lo psicologo parla di Martial dicendo che «quest’uomo di quarantacinque anni conduce un’esistenza alquanto singolare, vive da solo, molto ritirato e isolato, in un modo che sembra triste, ma che basta a riempirlo di gioia, dato che egli lavora quasi costantemente […] a edificare grandi opere letterarie»[24]. L’aggettivo «grandi» va inteso come ironico, in quanto Janet, pur dichiarando di non volersi pronunciare riguardo al valore di tali pubblicazioni, si affretta a ricordare che esse «finora non hanno avuto quasi alcun successo, non vengono lette e, tralasciando alcuni iniziati che vi si interessano, sono considerate come insignificanti»[25].
Nonostante ciò, Roussel conserva un’incrollabile fiducia nell’importanza del proprio lavoro, ed è convinto che prima o poi esso otterrà il riconoscimento che merita. Lo psicologo fa notare come una persuasione del genere sia abbastanza frequente negli scrittori, ma divenga anormale nel caso specifico, visto che Roussel gli confida: «Arriverò a delle altezze immense, sono nato per raggiungere una gloria sfolgorante. Ciò richiederà forse molto tempo, ma otterrò una gloria più grande di quella di Victor Hugo o di Napoleone»[26]. Tale convinzione si basa essenzialmente sul ricordo di un’esperienza che risale alla sua giovinezza. Infatti il diciannovenne Roussel, mentre lavorava con enorme assiduità alla composizione del romanzo in versi La Doublure, aveva avvertito per alcuni mesi una sensazione straordinaria, quella di star realizzando un capolavoro che lo avrebbe situato al livello di Dante o di Shakespeare. Egli concepiva la gloria non come una nozione astratta derivante dal giudizio degli altri, ma come uno stato fisico che l’interessato poteva avvertire con chiarezza in se stesso: «Questa gloria era un fatto, una constatazione, una sensazione, io avevo la gloria… Ciò che scrivevo era circondato da un irraggiamento, chiudevo le tende per il timore che la minima fessura lasciasse trapelare all’esterno i raggi luminosi che uscivano dalla mia penna. Volevo togliere lo schermo tutto in una volta e illuminare il mondo. […] In quel momento ero in uno stato di felicità inaudito, un colpo di piccone mi aveva fatto scoprire un meraviglioso filone aurifero, avevo vinto il primo premio più sbalorditivo. Ho vissuto più in quel momento che in tutta la mia esistenza»[27]. Quando, alla pubblicazione di La Doublure, il volume passa inosservato, ciò provoca nell’autore una forte crisi depressiva. Egli però mantiene intatta la certezza del grande valore delle proprie opere, e aspira a ritrovare il medesimo stato di estasi che aveva già avuto modo di sperimentare. Dichiara allo psicologo: «Ah! quella sensazione del sole morale non ho mai potuto ritrovarla, la cerco e la cercherò sempre. Darei tutti gli anni di vita che mi restano al fine di poter rivivere, anche solo per un istante, quella gloria»[28].
Janet non prende neppure in considerazione l’ipotesi che un giorno Roussel – come di fatto è avvenuto in seguito – possa raggiungere una fama durevole. Per lui non si tratta di un vero scrittore, ma semplicemente di uno «psicastenico», che soffre di «turbe neuropatiche gravi con depressione mentale, ossessioni, angosce e fobie»[29]. Egli fa comunque un’osservazione significativa sul proprio paziente: «Martial ha una concezione molto interessante della bellezza letteraria: occorre che l’opera non contenga nulla di reale, nessuna osservazione del mondo o delle menti, null’altro che combinazioni del tutto immaginarie»[30]. È quanto conferma lo stesso Roussel, riferendosi ad esempio ai propri viaggi: «Bisogna ancora che io parli qui di un fatto piuttosto curioso. Ho viaggiato molto. In particolare, nel 1920-21 ho compiuto il giro del mondo attraverso le Indie, l’Australia, la Nuova Zelanda, gli arcipelaghi del Pacifico, la Cina, il Giappone e l’America. […] Conoscevo già i principali paesi d’Europa, l’Egitto e tutto il nord Africa; più tardi visitai Costantinopoli, l’Asia Minore e la Persia. Ma da tutti questi viaggi non ho mai ricavato nulla per i miei libri. Mi è parso che la cosa meritasse di essere segnalata, a tal punto dimostra chiaramente che per me l’immaginazione è tutto»[31].
Janet, pur avendo avuto in cura Roussel per un periodo molto lungo[32], ha forse attenuato ma di certo non risolto i problemi mentali che affliggevano lo scrittore. Lo dimostra il fatto che nel 1928 quest’ultimo si fa ricoverare nella clinica di Kreuzlingen, in Svizzera, diretta dal grande psichiatra Ludwig Binswanger[33]. Nel frattempo, però, Roussel ha trovato un altro modo, più facile ma più rischioso, per ritrovare quell’estasi a cui aspirava: consiste nell’abuso di sostanze stupefacenti. Più tardi egli cercherà invano di farsi disintossicare tramite la degenza, durata otto mesi, in una clinica a Saint-Cloud. Specie nelle ultime settimane di vita, il consumo di barbiturici da parte dello scrittore raggiunge quantità elevatissime, sicché risulta a rigore impossibile stabilire con certezza se la sua morte sia dovuta a un’overdose accidentale o a un suicidio deliberato, ancorché vari indizi facciano propendere per la seconda ipotesi[34].
In effetti l’idea del trapasso, a lungo temuto e forse da ultimo cercato, svolge un ruolo importante non soltanto nell’esistenza dell’autore, ma anche nelle sue opere: «Roussel ha inventato della macchine da linguaggio che, a parte il procedimento, hanno senza dubbio quale unico segreto il visibile e profondo rapporto che ogni linguaggio intrattiene, scioglie, riprende e indefinitamente ripete con la morte»[35]. Anche la follia dello scrittore, pur non avendo avuto manifestazioni clamorose, ha trovato modo di rivelarsi attraverso il particolare trattamento letterario delle parole, sia pure in forme diverse: con i giochi concernenti le omofonie e i significati multipli in Impressions d’Afrique e Locus Solus, con le descrizioni iperbolicamente dettagliate in La Doublure e La Vue, col metodo di far raccontare la storia dagli attori anziché rappresentarla sulla scena in L’Étoile au Front e La Poussière de Soleils[36], e infine con gli incastri sintattici in quel testo labirintico che è Nouvelles Impressions d’Afrique. Ciò che si incontra nelle pagine di Roussel è dunque sempre qualcosa di inconsueto, fascinoso e inquietante: «Enigmi vuoti, tempo bloccato, segni che si rifiutano di significare, gigantesco ingrandimento del dettaglio minuscolo, racconti che si richiudono su se stessi, ci troviamo in un universo piatto e discontinuo in cui ogni cosa rinvia soltanto a sé. Universo della fissità, della ripetizione, dell’evidenza assoluta, che incanta e scoraggia chi voglia esplorarlo»[37].
Note:
[1] Per una dettagliata biografia dell’autore si rinvia a François Caradec, Raymond Roussel, Paris, Fayard, 1997.
[2] Comment j’ai écrit certains de mes livres, in R. Roussel, La Doublure – La Vue – Impressions d’Afrique – Locus Solus – L’Étoile au Front – La Poussière de Soleils – Nouvelles Impressions d’Afrique – Comment j’ai écrit certains de mes livres, Paris, Laffont, 2019 (d’ora in poi abbreviato in L. D.), p. 1107 (tr. it., del solo testo introduttivo, in Locus Solus, seguito da Come ho scritto alcuni miei libri, Torino, Einaudi, 1975, p. 265; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[3] Lo si veda ivi, alle p. 1225-1229.
[4] Ivi, p. 1108 (tr. it. pp. 266-267).
[5] Impressions d’Afrique, in L. D., p. 296 (tr. it. Impressioni d’Africa, Milano, Rizzoli, 1964, p. 16).
[6] Cfr. ivi, pp. 426-427 (tr. it. pp. 180-181).
[7] Cfr. ivi, pp. 341-342 e 404 (tr. it. pp. 72-73 e 151-152).
[8] Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., p. 1109 (tr. it. p. 268).
[9] Cfr. Impressions d’Afrique, cit., pp. 481-483 (tr. it. pp. 252-255).
[10] Ivi, pp. 292-293 (tr. it. p. 11).
[11] Michel Foucault, Raymond Roussel, Paris, Gallimard, 1963, p. 53 (tr. it. Raymond Roussel, Bologna, Cappelli, 1978, p. 46).
[12] Cfr. Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., p. 1112 (tr. it. p. 273).
[13] Impressions d’Afrique, cit., p. 368 (tr. it. p. 108).
[14] Ivi, p. 369 (tr. it. p. 108).
[15] Locus Solus, ossia «luogo solitario», è appunto il nome della villa.
[16] Alain Robbe-Grillet, Énigmes et transparence chez Raymond Roussel (1963), in Pour un nouveau roman, Paris, Éditions de Minuit, 1963; 2006, p. 73.
[17] Cfr. Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., p. 1114 (tr. it. p. 276).
[18] Locus Solus, in L. D., pp. 520-521 (tr. it. pp. 23-24).
[19] Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., p. 1120 (tr. it. p. 284).
[20] Indications pour 59 dessins, in L. D., p. 1093.
[21] S. Dalí, Nouvelles impressions d’Afrique, in «Le Surréalisme au service de la révolution», 6, 1933; testo ripreso in F. Caradec, op. cit., p. 398.
[22] M. Blanchot, Roussel (1963), in L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, p. 496 (tr. it. Roussel, in L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, p. 450).
[23] P. Janet, Les caractères psychologiques de l’extase (tratto da De l’Angoisse à l’Extase, vol. I, Paris, Alcan, 1926; il secondo volume dell’opera appare nel 1928), in Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., pp. 1196-1200.
[24] Ivi, p. 1196. Dal fatto che Roussel venga definito quarantacinquenne si deduce che queste pagine di De l’Angoisse à l’Extase sono state scritte nel 1922.
[25] Ibidem.
[26] Ivi, pp. 1196-1197.
[27] Ivi, pp. 1197-1198 (si tratta di frasi di Roussel riferite da Janet).
[28] Ivi, p. 1199.
[29] Formule di Janet riferite in F. Caradec, op. cit., pp. 169 e 195.
[30] Les caractères psychologiques de l’extase, cit., p. 1199.
[31] Comment j’ai écrit certains de mes livres, cit., p. 1116 (tr. it. p. 279).
[32] La terapia è durata dal 1914 al 1928, dapprima al ritmo di due incontri a settimana, poi di uno soltanto (cfr. M. Leiris, Roussel & Co., Saint-Clément-de-Rivière-Paris, Fata Morgana-Fayard, 1998, p. 125).
[33] Cfr. F. Caradec, op. cit., p. 36.
[34] Cfr. ivi, pp. 402-413 e Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Palermo, Sellerio, 1971.
[35] M. Foucault, op. cit., p. 71 (tr. it. p. 62).
[36] Per la versione italiana delle due pièces citate, cfr. La Stella in fronte e La Polvere di soli, in R. Roussel, Teatro, tr. it. Torino, Einaudi, 1982.
[37] A. Robbe-Grillet, op. cit., p. 76.
Sono felice di leggere un nuovo contributo di Giuseppe Zuccarino.
(E, come sempre, di grande originalità)