Intorno a Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik, di Marco Ercolani
Alcuni libri fondamentali, come i Diari di Alejandra Pizarnik, non nascono come volumi compiuti e risolti ma come frammenti di un “essere-nella-scrittura” intransigente e definitivo nella lucidità di scandagliare la propria angoscia ricavandone o schegge di parole o silenzi senza ritorno. Così accade nel primo volume dei Diari, fino ad oggi inediti in Italia, pubblicati nel 2023 dalle edizioni “La noce d’oro” con il titolo Il ponte sognato. Sappiamo che, fin da giovanissima, Alejandra Pizarnik fu lettrice di diari di scrittori, in particolare Katherine Mansfield, Virginia Woolf e Franz Kafka, tradotti a Buenos Aires negli anni Cinquanta. La versione spagnola dei Diari di Kafka venne pubblicata in Argentina, con la traduzione di J.R. Wilcock, nel 1953. L’esemplare di Alejandra riporta sulla prima pagina l’anno in cui lo acquistò, il 1955. Sottolineato e annotato, fu il suo libro prediletto. La struttura del diario, che in Kafka è evidente al massimo grado, è il simbolo perentorio e assoluto della scrittura come necessità interiore.
«1954. 26 settembre. Piegata nel divano, assisto, inquieta e divertita, all’ansia irrazionale che salta dentro di me. La paura del futuro mi avverte, discreta: che ne sarà di me? Il presente truffatore e bohémien non ammette rimproveri verdastri e macilenti. I desideri versano la loro sete infinita nella mia interiorità mordace, turbata».
Alejandra Pizarnik, regina della sua interiorità turbata, conservò tutti i suoi quaderni, che corresse fino alla fine, generando “frammenti” che pubblicò da viva in importanti riviste dell’epoca o come “frammenti di diario” o come poesie e piccole prose. «Entro in una libreria sconosciuta. Mi dirigo verso gli scaffali colorati, piena di curiosità e tesa dall’emozione. La speranza di trovare “qualcosa di nuovo” è rotta dalla voce dell’impiegato che mi chiede che titoli cerco. Non so cosa dirgli. Alla fine, ne ricordo uno. Non c’è. Avrei voluto continuare a guardare ma, dentro di me, sentivo il peso di quello sguardo da commerciante, un’occhiataccia soffocante verso qualcuno che “non sa” che cosa vuole. Sempre la stessa storia! Bisogna sempre dimostrare di avere uno scopo! Sempre il cammino correttamente segnato!».
Alejandra, anarchica e irriverente, esige ben altro da se stessa. Vorrebbe scrivere il romanzo assoluto e risolutivo: i suoi frammenti le appaiono come la preparazione a quel romanzo, che alla fine si rivelerà essere il diario stesso, nei cui meandri si è inabissata da sempre, perlustrando gli angoli più segreti di sé oltre l’equilibrio protettivo della ragione. La malattia mentale di Alejandra è la mancanza di scudi difensivi, il guardare vulcanico nel fondo di sé, con una disperazione ustionante, non consolata neppure dalle illusioni della scrittura. Alejandra è creatura “scorticata” il cui dolore affettivo nasce da una sincerità devastante e infelice.
«…non mi attraggono le avventure umane o divine, non mi attrae niente, sia qua che là. E, in realtà, non mi attrae troppo neanche leggere o scrivere, piuttosto mi sono ormai abituata, ho già tracciato il cammino da seguire, e non c’è altro da fare se non seguirlo. Questo è tutto. E, comunque, osservo che la mia prosa migliora sensibilmente. Continuare a studiare la tecnica. La cosa essenziale è la forma. Il resto è silenzio. Nel mio caso, sempre nel mio caso. Magari potessi prendere oppio o morfina o qualsiasi altra cosa, qualcosa che la abbellisse e la rendesse più attraente ai miei occhi. Pensare alla mia vita mi riempie di pietà: è così poca cosa, così minuscola, che non voglio neanche incontrare persone, perché a loro volta mi ispirano pietà perché conversano con me. Tale è la mia sensazione di non essere nulla. Di essere un nulla. Non desidero neanche scambiare lettere con le persone che conosco. Non ho niente da scrivere. Io ormai non esisto e quello che vedo è così poco, così difficile da scrivere, perché lo vedo a malapena e male. Penso ai bambini che si divertono e si rallegrano con poche cose. Io ho una rara mancanza di risorse interne. Non mi diverte fare nulla. Tutto diventa compito faticoso e sgradevole. Dal lavarmi i denti fino a leggere una poesia. Dal vedermi con qualcuno fino ad andare a teatro. Niente mi appassiona. Mi manca il senso di gratuità, proprio a me, che ho fatto sì che la mia vita abbia l’aspetto di gratuità maggiore che si possa immaginare».
Il quadro psichico è quello di un’esplorazione di sé protesa ad indagare le identità multiple che compongono il nucleo febbrile del suo inconscio. Come scrive Francesca Lazzarato (“Alias”, Il Manifesto, 26 febbraio 2023): «Identità multiple che a volte adottano la prima persona, a volte si rivolgono col “tu” a un’altra Alejandra, oppure la raccontano come fosse un’estranea, sdoppiandosi all’infinito per contemplarsi dall’esterno. Ma la frase che meglio restituisce la figura della scrittrice argentina suona così: “Possibilità di vivere? Sì, ce n’è una. È un foglio bianco, e lasciarmi cadere sul foglio, e uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco”. Farsi scrittura, questa l’ambizione, confondersi con essa: il testo diventa metafora ed espressione del corpo, tema fondante dei diari come della poesia, insieme all’infanzia, alla morte, alla solitudine, alla notte, all’amore insoddisfatto, all’ansia di essere riconosciuta ed accettata».
Nulla, se non la scrittura (e a volte nemmeno quella), può consolare una disperazione che ovunque non trova pace. «Soltanto i melanconici. Gli opachi, i tenebrosi. Mortale è il loro peccato. Non si scalderanno mai al sole. Lei, la malinconia, è l’ombra che è. Lo spazio del lutto. Loro perseverano nel lutto, si sono offerti a se stessi, sono come animali (Ronda de noche)». Alejandra Pizarnik non può scaldarsi a nessun sole. Non riesce a venire a patti con un suo “luogo” nel mondo. Lo cerca senza trovarlo. L’oltre incombe su di lei come un’ombra irresistibile, fino al suicidio finale. Muore a 36 anni, il 25 settembre 1972, dopo aver ingerito cinquanta pastiglie di Seconal, mentre era in permesso dalla clinica psichiatrica dove era ricoverata. Sul letto di morte vengono trovati i suoi ultimi versi: «non voglio andare / nulla più / che fino al fondo». Nulla di più. Alejandra, a ogni pagina dei taccuini, prepara il suo congedo da sempre. “L’Io è un recinto di notti”, esclama, e nessuna di quelle notti prevede un naturale risveglio nella luce.
«Nessuno, da quando sono nata, è mai riuscito ad avere con me una relazione naturale – cioè, io non sono mai riuscita ad averla con nessuno. E ora che sono più o meno serena, mi chiedo quale sia il motivo. Non devo dimenticare che quello che accade quando sono ubriaca rappresenta l’eccezione: infatti tutto scorre spontaneamente e in allegria. Il problema può riassumersi nel seguente punto: gli altri non mi interessano, non esistono per me, non mi interessano i loro desideri, le loro tristezze, niente, insomma… E nonostante ciò, io non amo la solitudine, o meglio, l’isolamento. Nessuno ha mai vissuto in un isolamento come il mio, da un paio di anni a questa parte. Nessuno ha parlato meno di me. Nessuno ha vissuto il ponte sognato nel silenzio e nella tristezza più di me. E sempre l’immagine di una stanza brutta e male illuminata».
Alejandra, vivendo il suo “ponte sognato”, si nega a ogni ogni cammino comune, in relazione con altri esseri viventi. Modella con disperazione il suo e si guida, ancora giovane, a precipitare dentro un assoluto senza appello.
«Avere davanti a sé la visione monotona della vita come cosa irrimediabilmente inutile. Ma, soprattutto, credere nella propria inutilità. Non appassionarsi a niente di suo né di altri. Rimanere immutabile nei disastri. Riconoscere che, anche se non si trattasse di disastri, non sarebbero altro che consolazioni. Sapere che la speranza è una bugia, che l’assoluto è l’unica aspirazione legittima e che è irraggiungibile. Rivelarsi sempre che la salvezza non è possibile, che l’amore non è per lei, né la fortuna né il benessere. Ma che sia una rivelazione nuda di pianto, che sia una certezza affermata con naturalezza e anche, se possibile, con senso dell’umorismo. Negare la speranza, l’attesa e il sole. Agonizzare con gli occhi chiusi, senz’appello».
La forza straordinaria della creazione di Pizarnik è l’intransigenza surrealista e realista della sua scrittura, che proprio nella forma del diario trova il massimo compimento. Come leggere i suoi taccuini? Come soliloqui psichici, che magnetizzano la sua realtà interna verso la morte come fuga da un’angoscia non tollerabile. Ogni vera scrittura cerca l’impossibile, e quindi è una forma di follia irriverente a ogni canone. Anche se occorre distinguere tra sofferenza psichica – bloccata in dolori immutabili – e mobile immaginazione poetica, che traversa tutti i confini. Ma a volte i due universi si intrecciano e il cortocircuito crea precipizi improvvisi. I folli soffrono di un ‘eccesso di verità’: la sentono a un così alto grado di temperatura emotiva che spesso non evitano il caos della distruzione. Ma la scrittura, se autentica, si situa sempre nel territorio della possibilità ulteriore: è una seconda chance rispetto alla realtà, contro tutte le norme statuite: è galassia parallela.
Alejandra scrive: «Ho comprato uno specchio molto grande. Mi sono contemplata e ho scoperto che il volto che io dovrei avere si trova dietro – imprigionato – a quello che ho. Tutti i miei sforzi devono tendere verso la salvezza del mio autentico volto, Per quello, è necessario un grande lavoro fisico e spirituale». Da quel lavoro tutta l’opera della Pizarnik è traversata, come i mille lapilli di un vulcano di cui non si è potuta arrestare l’eruzione. In una pagina del 29 agosto 1959 scrive: «Continuerò a scrivere questo diario. “Ho bisogno di avere un punto di riferimento”, dice sempre Cristina (Campo). Ora lo capisco. “Un punto di riferimento”, qualcosa che la connetta con se stessa. Per questo porta con sé tanti taccuini e quaderni. È che i giorni passano come ondate. Oggi ho guardato a lungo il calendario, senza riuscire a credere ai miei occhi: come diavolo sono potuta arrivare al 29 agosto senza rendermene conto? Mi spaventa… È da tempo che non scrivo intensamente. Mi dà fastidio tutto: la penna, la macchina da scrivere. Questa penna non la sento quasi più mia. L’ho abbandonata per molto tempo. Ma neanche la macchina scrive bene. Sto accettando l’idea che forse la mia poesia non avanzerà e che il romanzo non lo scriverò mai. Sto come ieri, come cinque anni fa: nel grande automatismo». Il “grande automatismo” di Alejandra è esattamente il diario che non smetterà mai scrivere.
A. Pizarnik, Il Ponte sognato. Diari, vol. 1 (1954-1960), La noce d’oro 2023. Traduzione di Roberta Truscia. Prefazione e cura di Ana Becciu.