Giacinto Cerone
DISCORSO SUL GIACINTO
(1957-2004)
di Domenico Brancale
Mi ritorna la triste vocazione ad esistere
La brama di cercarmi in ogni luogo.
(Leonardo Sinisgalli)
Parlare di Giacinto Cerone è parlare prima di tutto di un amico e non esiste nulla di più di difficile che parlare di un amico. Si è scoperti, e allo stesso tempo segreti. Questa difficoltà è dolore umano. Ogni parola che pronunciamo è un atto di protezione nei suoi confronti perché in fin dei conti proteggiamo noi stessi. Perché un amico è lo specchio su cui compaiono i tratti del nostro essere che non conosciamo. Lo specchio è l’unico materiale inventato che è naturale. Chi guarda uno specchio finisce per vedere sé stesso, chi guarda un amico sprofonda nella propria anima. L’amico è il riflesso di una luce assoluta. Distogliere lo sguardo è tradire la propria visione.
Ho incontrato Giacinto più volte prima d’incontrarlo la prima volta. L’ho incontrato nell’argilla, tra le crepe che parlano, nei voli dei falchi. L’ho incontrato tra le agavi, sulla soglia dell’orizzonte. L’ho incontrato nelle mani che scolpiscono il respiro della natura. A un certo punto ho avuto l’impressione che quell’incontro fosse accaduto a nostra insaputa molto tempo prima, in una sorta di preistoria della nostra esistenza, in uno spazio dove non contano tempo e distanza. Anzi nelle sue opere il tempo sembra condensarsi in un solo istante, un istante dilatato che prosciuga ogni illusione. La vita in fin dei conti è questo istante irraccontabile in cui le cose non smettono di rinascere. Accanto a lui sapevo di rinascere.
«Nell’epoca greca il rumore del mare è stato sempre contemplato da grandi filosofi, parlavano quasi sempre del mare, come viadotto per la vita, per le cose del mondo, per le cose soggettive del mondo. Per me è il massimo dell’orizzontale. Ho sempre pensato che ci sia molto bisogno di orizzontale. Davanti a questa immensità come fai a pensare di essere qualcuno o qualcosa». Queste parole di Giacinto Cerone dimostrano che la grandezza di un uomo sta nel riconoscere la propria piccola inconsistente presunzione.
Giacinto Cerone non ha mai tradito il mare. Ogni gesto sembra tenere a mente questa immagine. Da quell’orizzontalità si ergono i sogni, prendono forma le sculture.
Non c’è nulla di più moderno di un albero. Cammina a testa in giù con i piedi piantati nel cielo. Ci sono stelle che cadono dai rami. Mi esprimo nel desiderio, nell’inesaudibile.
Lo sapeva bene che la scultura comincia là dove la materia sfugge alle mani. Sapeva che il mare ha bisogno di scogli per infrangersi.
Lo sapevamo entrambi. Persino nelle ore in cui tutto gli appariva trasfigurato non perdeva di vista il suo destino: creare. Creare a costo di tradire la possibilità di essere al mondo. Cerone sembra abbia tenuto a mente, durante tutto il suo percorso, le parole di Baudelaire: un uomo non deve mai dimenticare due diritti fondamentali: il diritto di contraddirsi e il diritto di andarsene. La contraddizione nell’utilizzo dei materiali, la scultura di legno rivestita di cemento, la plastica abbinata al bronzo o al gesso, era un modo per creare, a suo dire, una dinamica negli occhi di chi guarda. Ogni sua opera sembra volerlo testimoniare. Scolpire la materia per spostare lo spazio intorno. Scolpire l’aria per rinnovare dentro il respiro. Affidarsi al vuoto immemore del grido.
Ciò che conta veramente in un’opera è solo quello che non si vede. Ho provato a chiudere gli occhi e finalmente sono apparso alla mia morte.
E un’eco: dobbiamo esseri martelli che spaccano i vetri per far entrare il vento nelle case.
Una versione di questo testo è apparsa in Congiungimenti 69 di Hervé Bordas e Domenico Brancale, Prova d’Artista 2022.
Fotografia di copertina ©Domenico Brancale.
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