Roberto Calasso
Homo saecularis non è così contrario alle religioni in sé. Le religioni somigliano molto alle ideologie – e con queste ultime è abituato ad avere a che fare ogni giorno. Chi dice di essere cristiano non deve essere molto diverso da chi dice di essere vegetariano. Sono tutti gruppi, comunità, confraternite. Si può essere comunisti – come anche culturisti. Ogni scelta va rispettata. Sono tutte minoranze. Nicchie. Quel che Homo saecularis invece non riesce a cogliere è il divino. Non sa situarlo. Non rientra nell’ordine delle cose. Delle sue cose.
Divino e sacro: che cosa accade se qualcuno che non è incline a professare una qualsiasi religione riconosce quelle due parole e ne ha esperienza, non meno intensa di quella di un fedele? Dovrà ammettere che quelle due parole indicano qualcosa che sussiste in sé, ancor prima e al di fuori di ogni culto. E già questo invita a squarciare l’involucro protettivo e soffocante costituito dalla superstizione della società.
Il divino è ciò che Homo saecularis ha cancellato, con cura, con insistenza. Lo ha anche espunto dal lessico di ciò che è. Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo verso il divino. Atto sporadico, momentaneo, non trasponibile in uno stato. «Incessu patuit dea», il divino è come il passo di una dea, che si fa avanti e subito va oltre. Il divino è uno scintillamento discontinuo, che rinvia a qualcosa di compiuto e continuo. Per Homo saecularis tutto questo era evanescente e contrario alla fisiologia che aveva elaborato in se stesso. Era vano, ormai, rivolgere i propri desideri in quella direzione. Fra tutte le varietà di Homo saecularis solo i membri della Società degli Amici del Crimine, raccontati da Sade, sapevano attuare desideri precisi, circostanziati e inequivocabili.
R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi 2017.