Esperienze

Verde-muffa è la casa del dimenticare[1]

È passato circa un anno dalla comparsa e rapida diffusione del Covid-19, contro il quale è stata ingaggiata una guerra totale e globale, una guerra che dura ancora, impedendo di assegnarlo a un passato, o meglio di dimenticarlo, in obbedienza alla pratica temporale della nostra epoca presentista. Il confinamento ci ha consegnato all’esperienza di un tempo sospeso, nel quale i giorni pur continuando a succedersi non smettono di appartenere a un presente che permane, stretto in una doppia impossibilità che preclude il passato e il futuro. La crisi pandemica ha tuttavia accelerato e rinforzato tendenze già presenti nelle nostre società. L’urgenza ha certo costretto a una improvvisa decelerazione, ma ha anche impresso un’accelerazione esponenziale all’uso della connessione digitale, conficcando ancor più la nostra esperienza temporale nell’immediatezza e nella simultaneità. Possiamo essere presenti dappertutto e fare quasi tutto, manca solo la presenza reale, reale però è il tempo di questa simultaneità in cui tutto avviene e che non permette di distinguere l’evento dalla sua immagine mediatizzata, gli attori reali dagli autori virtuali, rendendo incerti o addirittura invertendo i rapporti causali.

La pandemia ha esasperato e posto sotto una luce crudele i tratti distintivi del nostro “regime di storicità”, che “ormai” all’inizio del XXI secolo François Hartog aveva diagnosticato come presentismo, certo ancora un –ismo moderno, ma incapace di generare tempo storico e all’origine dell’esperienza contemporanea di un presente perpetuo, inafferrabile e quasi immobile: «Tutto accade come se non ci fosse altro che il presente, una sorta di vasta distesa d’acqua agitata da un incessante tremolio»[2]. Intrappolata nel presente, la temporalità è schiacciata e risolta nell’istante, il quale, sciolto – lui sì – dalla continuità di una connessione, non ammette altro che se stesso, rimuovendo anche ciò che è accaduto soltanto ieri in un passato alieno, remoto e irrilevante per il presente. L’identità personale e collettiva sembra non articolarsi più secondo una narrazione biografica coerente, ma agitarsi all’interno di un orizzonte costellato di scelte molteplici, tutte selezionate da sistemi astratti e disposte intorno alla funzione di uno stile di vita, in cui domina in ogni caso la dimensione del presente: orizzontalità spaziale di una rete di relazioni e riferimenti.

Nel contesto di una tale esperienza temporale, il passato ci è dato come qualcosa di radicalmente altro, un mondo da cui siamo per sempre esclusi. Difficile forse crederlo se si guarda al moltiplicarsi di modi e risorse per raccontare la storia o all’istituzionalizzazione sociale delle memoria, ma un eccesso spesso nasconde un difetto: quarant’anni fa Pierre Nora scriveva che «non si parla così tanto di memoria se non perché non ce n’è più[3]. La memoria che non c’è più è quella memoria viva (sociale, collettiva) che saldandosi con una storia e una comunità costituisce un’unità organica. Essa è innanzitutto vita perché dipende dai modi in cui il presente-presenza si pensa in relazione tanto al passato quanto al futuro. Oggi, il giorno della memoria per eccellenza, si commemora l’orribile sterminio degli ebrei, il popolo che per primo congiunse infatti la memoria alla sacralità della vita facendone il suo più importante comandamento: Zakhor! Ricorda! Uccidendo gli ebrei, i nazisti e tutti i loro complici tentarono di estirpare l’idea stessa che ci fa umani nel ricordo, allora come ora. A tutti noi, dunque, è affidato quel testimone. Quest’anno tuttavia il nostro Zakhor dovrà levarsi contro un più forte oblio, giacché “chiusi all’interno” non riusciremo a vedere il «verde-muffa» della «casa del dimenticare».

Rossana Lista

[1] «Schimmelgrün ist das Haus des Vergessens», Paul Celan, Der Sand aus den Urnen.
[2] Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris 2003, p. 40.
[3] P. Nora, Les lieux de mémoire, sous la direction de Pierre Nora, I, La République, Gallimard, Paris, 1984, p. XVII.

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