Su “Poetiche e individui”, uno sguardo
Ho scritto questa lettera a Maria Borio appena concluso il suo libro, Poetiche e individui, edito da Marsilio nel 2018. È una lettera privata, ha dunque il pregio di muoversi liberamente: non analizza, certo, a fondo le scelte né le intenzioni dell’autrice. Credo suggerisca tuttavia una riflessione mossa da quelle stesse scelte.
Livorno, 17 aprile 2018
Hanno questo di proprio le opere di genio che quando anche rappresentino al vivo la nullità
delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità
della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande
che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia, e scoraggiamento
della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e
forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, riaccendono
l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta (Leopardi, Zibaldone, ottobre 1820).
Cara Maria,
il tuo libro mi è piaciuto molto. Organizza un universo poetico parzialmente conosciuto e tutto ancora da decifrare, sia in termini di valore che di manifestazione culturale. Dunque Poetiche e individui può dirsi un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia occuparsi in futuro dell’evoluzione della poesia italiana negli ultimi cinquant’anni. Per quanto il piano storico, con le sue tendenze culturali, condizioni inevitabilmente il ruolo del poeta e le opere che scrive, emerge chiara dal tuo libro la voce poetica di ogni singolo individuo: è misurato l’accento tra i gruppi e le tendenze e quello tra i singoli poeti. Stabilisci un collegamento – che è più una frizione – tra il contesto storico-sociale e l’essere-umano-poeta. D’altronde tu stessa spieghi quanto la poesia, a partire dagli anni Settanta, cambi radicalmente verso un orizzonte individualistico in cui sono molti a presentare se stessi come autori scollati da un principio generale comune, in cui l’io diviene misura di se stesso. E tuttavia tutto questo è insieme un pregio e un forte limite per chi voglia credere che la poesia possa essere anche qualcosa in più o magari qualcosa di diverso da un insieme gregario di canonizzazione e poetiche.
Borges, in uno dei suoi racconti, sostiene che il lavoro del poeta non consista proprio nella poesia, ma nell’invenzione delle ragioni per cui la poesia possa definirsi ammirevole. Le ragioni, come ben spiega Carla Benedetti in uno dei capitoli de L’ombra lunga dell’autore, non sono né più né meno che la poetica, l’idea che racchiude in sé il significato e il valore del componimento stesso. La poetica si antepone prepotentemente all’opera stessa, la legittima, la promuove – esclude ciò che si genera per vie diverse. Credo che dal tuo libro emerga chiaro l’atteggiamento di chi antepone (i poeti che tu esamini – non tutti, ovviamente) la poetica al testo poetico, volta a parer mio a demolire la spinta alla creazione artistica. Le avanguardie sono poetiche esibite in cui il groviglio della poesia si esaurisce neanche più nei componimenti ma nei manifesti stessi. Dietro tutto questo, insomma, c’è il concetto per cui il piacere della lettura non dipenda più dal piacere artistico, dalla forma, dall’armonia tra forma e contenuto ma dall’idea che la precede e la legittima. La concettualizzazione dell’arte ha esasperato molte delle arti visive e parte della poesia italiana del secolo scorso. Tutto ciò crea gabbie creative incredibili, nelle quali è semplice sentirsi al sicuro. Manca, nell’ultimo mezzo secolo – e il tuo libro lo manifesta ampiamente – quella che Leopardi definiva niente altro che un’illusione in grado di generare opere che possano entusiasmare il lettore. Per tutto questo ho difficoltà ad apprezzare alcuni dei poeti che tu hai antologizzato. Certo ci sono delle eccezioni. Magrelli ad esempio è un poeta che seguo da sempre, che mi piace moltissimo, che in un certo senso rimette in gioco tutto quanto senza labirinti predeterminati, specialmente nelle prime raccolte e in Ora serrata retinae in particolare. È, come tu specifichi, il ripristino di un senso classico di tradizione che è insieme il senso di una rottura. Credo che Magrelli insieme a pochi altri sia il vero continuatore della tradizione. «Dove per tradizione non s’intenda un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini – ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti della nostra terra: allora riesce alquanto difficile proporsene un modello esteriore, trarne un preciso insegnamento. Non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni». Credo, in un certo senso, che la vera poesia sia sempre in qualche modo reazionaria. Come vedi il tuo libro offre molti spunti di riflessione. Muove ad un altro interrogativo: quali libri sono destinati a durare? Io non lo so. Ma immagino che almeno una tra le possibili derive sia stata raggiunta: cosa conta oggi veramente, specie tra i libri di poesia, l’opera in sé o il nome dell’autore è il mezzo utile a legittimare un’opera? Questa è una lettera privata, un confronto tra due persone, tra due intimità, senza fine, senza scopo, siamo io e te e basta. Nessun altro. Quanti meritano davvero il tempo che tu hai dedicato loro? Rendendoli in certi casi migliori di quanto non siano stati? E ancora, quanto, per persone come noi (come te in particolare – io sono un esordiente totale) è importante aggiornarsi sugli ultimi libri, per capire che risultati abbia raggiunto uno scrittore, se abbia bene interpretato il suo presente; e ci dimentichiamo che nel giro di qualche manciata di anni a nessuno interesserà più nulla perché il Tempo collasserà un anno sull’altro, un decennio sull’altro. E allora sì che resteranno in piedi solo quei libri di poesia fuori dal tempo, che hanno aggiunto – rigenerandola – un nuovo tassello al mosaico multiforme della nostra tradizione. Sono molti gli autori che citi, ai quali dedichi più o meno rilevanza. Per questo non ho potuto fare a meno di notare l’assenza di alcuni tra gli autori che probabilmente non hanno fatto scuola e che tuttavia mi pare possano dirsi poeti autentici, con una voce propria che li distingue e, tra loro, almeno in parte, li accomuna. Riporto uno dopo l’altro alcuni testi che a me sembrano esemplari e che mostrano la voce delicata e potente di questi tre autori. Probabilmente li conoscerai; vorrei che tu li leggessi così, senza nient’altro.
Il primo autore è Salvatore Toma, nato a Maglie nel 1951 e morto suicida nel 1987. Le poesie sono tratte da Canzoniere della morte, un’antologia curata da Maria Corti, edita da Einaudi nel 1999.
Questa è la sua poesia:
Quando sarò morto
e dopo un mese appena
come denso muco
color calce e cemento
mi colerà il cervello dagli occhi
se mi si prende per la testa
(l’ho visto fare a un mio cane
disseppellito per amore
o per strapparlo ai vermi)
per favore non dite niente
ma che solo si immagini
la mia vita
come io l’ho goduta
in compagnia dell’odio e del vino.
Per un verme o una lumaca
avrei dato la vita:
tante ne ho salvate
quando ero presente
sciorinando senza vergogna
l’etichetta della pazzia
con l’ansia favolosa di donare.
Per favore non dite niente.
***
Vorrei essere immortale
per un certo numero di anni
sapere di non incappare
in strani eventi
sorprese disgustose
lutti condanne rimorsi.
Saprei allora essere diverso
forte incorreggibile
sfidare tutto con destrezza
sapere già la sera
se al mattino sarò vivo.
Non sarei più un poeta
un folle un perdente
a me stesso ossessivo.
***
Spremiti Toma
spremiti come
un limone
o spezzati come
si spezza un ramo
d’alloro per
respirare dal vivo, dal profondo.
Questo ordinarsi
di vivere non
ti fa bene non
ti rappresenta più.
Àrditi Toma
datti fuoco acqua terra
datti luce
batti palpita schiuditi
battiti.
***
Vorrei ficcarmi le dita
allo stomaco
spaccarmi le costole
spezzarle con grandissimo dolore
aprirle
so che non verrebbero fuori
visceri fegato cuore
verrebbero fuori
nevi alberi fuoco
vento pioggia
perché io sono fatto così
vegetale e libero.
Io non sono cervello
ossessioni inibizioni
società paure
io sono vita
vita libera libertà foreste
gioia di esistere.
Il secondo poeta è Attilio Lolini, nato in provincia di Siena nel 1939 e morto il 22 giugno dello scorso anno. Le poesie sono tratte da Notizie dalla necropoli, un’antologia personale edita da Einaudi nel 2005.
Questa è la sua poesia:
le futili storie che in qualche modo
ci riguardarono
aspettano invano
chi le ordini
le parole ci ripugnano
infette
ti conosco
alla larga
combinare le parole
ancora
scuse la gioventù la maturità la vecchiaia
l’inutile solfa
chi arrivò chi non arrivò
percorreremo la stessa strada
e ora qui
va per le lunghe
piagnistei tu m’assicuri
ma com’è facile
stendere questi vacui
elenchi di parole
ti basta
ah i poeti noi
che facemmo smorfie sberleffi al niente
ai padroni ai potenti ai presidenti
che cantammo forse raucamente
ma comunque
***
un mese o più che non ci laviamo
in combutta
la contessa sfrigna mele al mercatino
di san lorenzo
fontana di stazione ore sei e trenta
(arriva qualche treno del cazzo)
saltelliamo intorno al getto d’acqua
come foche o bestie simili
si lavi prima lei signora
mica ho fretta quella subito
biascica rosario di bestemmie
e tira fuori un piede dalla
pantofola di gomma smammola le croste
già si radunano per vederci
questi
i poveri come si odiano tra di loro
egregio Ingrao
siamo nati male noi
caro ragazzo
ma guarda questi qua
(gallina turista in vista)
nella sala d’aspetto
il mezzomorto degli spilloni
dell’occhialino
della merda secca fagotti giornali cuscino
crepato circa dieci minuti fa
occidente
libero e felice
***
per i poveri non c’è nessuna storia
chi distratto ci degnò
di uno sguardo
è sepolto da tempo
ci tirarono le orecchie
vomitandoci addosso
le nuove morali
preziose carte d’identità la morte
distratta
non ci riconosce
mica sa quello che fa
***
La poesia non abita più qui
non c’è poesia dove vivi
nelle case e nelle strade
dove ti disperavi
oppresso da inutili rimorsi
da infingardi progetti
subito abbandonati.
La poesia è da altre parti
fugge il presente scortese
e l’uggioso futuro.
Infine l’ultimo e, a parer mio, tra i più significativi poeti italiani degli ultimi venti anni: Ivano Ferrari, autore di quattro raccolte di poesia, tutte edite da Einaudi (tranne Rosso epistassi pubblicata da Effigie nel 2008), La franca sostanza del degrado edita nel 1999, Macello edita in forma integrale nel 2004 e parziale nel 1995 nel volume 4 dei Nuovi poeti italiani (entrambe scritte a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta) e la Morte moglie (la raccolta migliore) edita nel 2013.
Questa è la sua poesia:
da Rosso epistassi:
Oggi che non sono fresco
che ho sporcato il giorno
e la convalescenza spurga
appendo spunti ai chiodi
esco nella prosa esterna,
la luce di tutte le fiamme
intanto si slancia per strada
un correre di ombre di fuoco
approda al tramonto giaciglio
di prede ustionate dall’ora,
rosso epistassi è il cielo.
***
Compagno Vincente
senta come suona in italiano «campo di grano con voli di corvi»
basta all’evidente per evadere?
Amo il suo commosso amore per «la sedia di Gauguin ad Arles»
quella candela accesa.
La penso puntuale e avido in prossimità di fogge reiette
mentre sussurra alla luce.
Vivo tra obitori e affinità nel letificante rossore delle ombre
le chiedo la prelazione dell’ornato iconico «Caffè di notte»
che fa rosa la morte dentro la foschia dell’accoglienza.
***
Occorre variamente affidarsi al dolore
impedire alla poesia di raccontare
vorrei lamelle cerebrali da ficcarti in gola
nella bocchetta succhiadora
la rappresaglia delle cosce tu che ami il tumulto dei germi
nei brividi che dai
non per nulla la storia si accumula
verrebbe voglia di una scopatina al pensiero
Da La franca sostanza del degrado:
Sparo su di uno straccio usato
sull’esistenza scaltra dei rimorsi
sono come la luna condannato
a stare in alto per colpa dei poeti
piloti senza viaggio o latitanti.
Prendo in ostaggio i raggi
– di sole ora si parla –
reliquie di luce clandestina
da lì sparo sulle ombre meridiane
sui feudi di catrame delle favole
vado in verso e uccido io per voi.
***
Ho ripreso a scrivere
parole impaurite, luttuosamente, si mettono in colonna
scrivo di colombe spennate
di muscoli cardiaci e di muse in menopausa.
Certo sono ancora acerbo
per le confessioni dagli addobbi viola
per le verità che fanno morire
per diventare aviatore.
Ma quale che sia il progetto
voglio mettermi a squartare
queste panche su cui appoggiano
le nostre sferiche vocazioni.
***
Abbiamo cambiato casa
ancora una limatina svogliata al destino
esploratori di cuori trasmigriamo ansimando
c’è anche il giardino dove ciondolano vigneti appassiti
i bambini si gettano in un’ombra di prato
le pareti esterne hanno il colore di uno spontaneo supplizio.
Ma dal cancello non entrava la scrivania.
Troppo gravida di quelle prepotenti malinconie
che tu sai essere le mute forme delle mie tracce.
Ho parlato finalmente con D.
fissando statisticamente le parole
ho accantonato l’inquietudine
ed ho subito notato che respira
anche se austeramente;
della mia poesia non ho parlato
l’urto di queste ombre risentite
gli apparirebbe come mortifero crepuscolo.
Come potrei spiegare queste chiusure spalancate
a chi si affida alla misericordia della ragione
per elemosinare identità
nei picnic della storia?
Da Macello:
C’è un momento della macellazione,
quando l’organo di sollevamento
solleva il gambare a cui è appeso l’animale,
in cui si ripete il sacrificio della crocifissione
compreso un S. Longino con pertica uncinata
che stabilizza il corpo per meglio tagliuzzare.
***
È fuggito un toro nero
erra sul cavalcavia
impaurendo il traffico,
lo rincorriamo
impugnando coltelli
bastoni elettrici e birre
corre si ferma torna
arrivano i carabinieri coi mitra,
ora è steso su un velo d’erba
e sussurra qualcosa alle mosche.
***
Nella stanza d’attesa
un vitellone chiazzato
e una tornita manzadra
avranno ancora la notte
per annusarsi promesse
da domani eterne.
Da La morte moglie:
Ogni parola
è un reperto archeologico
via il primo strato, il secondo, il terzo
ciò che resta è una cosa inutile di migliaia di anni fa
spesse volte la poesia accumula polvere
e rivela che è indispensabile mostrarsi morti
c’è più intensità e desiderio nella fine
che nel portamento del testo.
***
Le occasioni per arretrare sono finite
si corica al tuo fianco l’orizzonte
e il sole non fa più rumore.
***
Simile alla carta
insorgi agli occhi fino a farti cenere
poi chiudi la finestra
prima che i sedativi imparino la notte
la poesia come la rivoluzione non è mai amorosa
brucia la misura per dirsi addio
eppure non manca lo stupore al frastuono del verso
c’è un sottosuolo di voragini e firmamenti
nella cantafera della ghiaia sulla tomba.
Cara Maria, probabilmente ho forzato la lettura del tuo libro. Ma questo è il suo miglior pregio: evidenzia punti di forza e mancanze della poesia italiana dopo la grande lirica di Montale, di alcuni grandi libri di Luzi, di Sereni, di Caproni e pochi altri. Spero ci sia occasione di riparlarne oppure scrivimi se ne hai voglia e tempo.
Ti abbraccio forte.
Paolo
Questa lettera è tratta dal libro di Paolo Cosci La modulazione dell’urlo, in uscita a maggio 2021 con Effigie.